Il racconto della domenica: Altra categoria di Gianni Somigli

 Il racconto della domenica: Altra categoria di Gianni Somigli

illustrazione di Gianni Somigli

Ce l’hai fatta. Le lacrime ti offuscano gli occhi come banchi di nebbia. Eccoli gli odori del tuo sogno: erba tagliata, sudore, olio di canfora.

Li avverti dalla tribuna, quegli odori. Lì dove tuo padre vi portava allo stadio fin da piccoli. Sciarpa al collo e bandierina, prendeva te e tuo fratello per mano, uno per lato: casa vostra era a pochi passi. Quelle passeggiate domenicali sono i ricordi più belli che hai. Eravate felici.

L’andata era ricca di speranze. Anche quando la vostra squadra affrontava le più forti. Era bello sperare insieme, sognare insieme, pregustare una gloria che quasi mai si avverava. Tuo padre prometteva gelati e dolci alla crema in caso di vittoria, stravolto da una gioia prematura, infantile e cristallina.

Hai continuato ad andare allo stadio anche quando tuo padre è morto senza realizzare il suo desiderio più grande: vederti indossare quei colori. Hai continuato ad abbonarti, a sederti sulle stesse gradinate. Sempre lo stesso seggiolino sbeccato. Era tuo padre quello che sentivi vicino quando lo scarso centravanti di turno la buttava dentro? Ti voltavi per abbracciarlo e per qualche istante era lì che sbracciava ed esultava come un forsennato, non quel ciccione che si ostinava a prendere ogni anno il posto accanto al tuo e che si scofanava birre e panini costringendoti a startene quasi rannicchiato sulla tua poltroncina rossa. Se tuo padre fosse diventato un fantasma lo avresti trovato lì.

Tuo padre ti ha sempre amato. Anche se non hai superato i provini, anche quando hai deciso di mollare il pallone. Ti ha amato quando tuo fratello è morto. Per colpa tua. Non te l’ha mai detto nessuno. Non ce n’era bisogno. Tu lo sai. Non sarebbe scappato quel giorno se tu non gli avessi detto quelle cose brutte. Non si sarebbe catapultato per le scale. Non avrebbe perso l’equilibrio e non si sarebbe schiantato contro la parete spigolosa sul pianerottolo. Non avrebbe passato la sua breve e misera vita attaccato a una macchina e non sarebbe morto senza darti la possibilità di chiedere perdono. Il senso di colpa è una pallonata allo sterno e ogni tanto la senti ancora spezzarti il fiato per la rabbia. Per la vergogna.

Avresti esaudito il suo desiderio. Ci sarebbe stato il suo e il tuo cognome su quella maglia, un giorno. Lo hai giurato a tuo padre, anche se lui non ti sentiva più.

Arriverà quel giorno, gli sussurrasti.

Quel giorno è oggi.

Vedi tuo figlio entrare in quel rettangolo verde e tuo padre adesso lo senti davvero, ne sei sicuro. Ti stringe il braccio e ride di una gioia mai provata prima. Mai vissuta da vivo.

Tuo figlio, lui ha sedici anni.

Sei sempre stato certo che fosse un calciatore di un’altra categoria rispetto a te e a tuo fratello morto e a tuo padre morto. Doveva solo capirlo, accettarlo, e impegnarsi, perché quel sogno adesso era una sua responsabilità.

Il pallone era nella culla insieme a lui. Lo hai portato a correre prima e dopo la scuola fin da quando aveva cinque anni. Cento palleggi prima di dormire da quando aveva cinque anni. Un nutrizionista lo ha seguito fin da quando aveva cinque anni.

Quando tua moglie se n’è andata ti sei sentito sollevato. Ti serviva, questa è la verità: il tuo solo scopo era avere un figlio. Un maschio. L’avresti cacciata di casa subito dopo il parto. Non l’avresti fatta neanche tornare dall’ospedale. La sua presenza, insulsa e superflua, l’hai sopportata per un po’. Poi quel pomeriggio sei rientrato dalla fabbrica e lei non c’era più. Almeno è quello che hai raccontato a tutti. Ma non importa. Avevi una missione e le sue petulanze distraevano tuo figlio. Non ti sei sentito in colpa. Non stavolta.

Ti sei potuto dedicare a costruire tuo figlio, a renderlo perfetto. Avevi il terrore che non crescesse più di un metro e settanta. Come te. Vitamine, ormoni, altra roba. Senza quella donna nei paraggi potevi farlo lavorare sulla tecnica. Guardare migliaia di video di giocatori leggendari. Studiare la tattica dei grandi mister. Niente amici. Pallone. Pallone. Ancora pallone. Movimenti e diagonali, controlli di esterno piede e calci di punizione. Corsa e flessioni, corsa e addominali, esercizi per sviluppare la muscolatura delle cosce e dei polpacci, scatti in salita, gradoni, pesi, lavoro sul piede debole.

Fosse lì, ora, tua moglie, le diresti: Come la mettiamo adesso? Chi ha ragione adesso? Hai visto dove siamo arrivati senza averti tra i piedi?

Non capiva. Non poteva.

Ma tu, tu. È il tuo giorno oggi.

Oggi i tuoi sacrifici vengono ripagati.

I soldi buttati per corrompere osservatori di squadre professionistiche. Quando tutti lo snobbavano, quando nessuno voleva dargli una possibilità. Se la meritava. Te la meritavi. Tuo padre se la meritava. E anche tuo fratello.

Quando sei riuscito a ottenere i numeri del direttore sportivo e del responsabile del settore giovanile della squadra sei rimasto tre giorni a guardare il telefono senza il coraggio di sollevarlo. Quando ti sei deciso la cornetta pesava tonnellate. Le parole non ne volevano sapere di uscire dalla tua bocca impastata di terrore.

Il ds, quello ha interrotto la comunicazione e bloccato il tuo numero dopo un secondo. Ma l’altro ha deciso di incontrarti. Di vedere te e il tuo figlio sedicenne. Di visionarlo. Stavano cercando qualcuno in quel ruolo, aveva detto. Il titolare era stato investito da un pirata della strada pochi giorni prima e molto probabilmente non avrebbe più potuto giocare a calcio. Forse, neanche camminare. È una tragedia, avevi commentato. Dalle parti dello sterno tutto taceva.

Da quel momento è stato tutto così veloce che ricordi solo alcuni spezzoni. La stretta di mano tra te e il dirigente, la stretta di mano tra il dirigente e tuo figlio. La telefonata dopo una settimana: avrebbe voluto rivederlo. Era convocato per un’amichevole con una squadra di provincia. Sarebbe stato in prova insieme a un altro ragazzo, e dopo la partita avrebbero scelto chi prendere tra i due.

Quella partita. La ricordi tutta come si ricordano gli incubi.

Tuo figlio affastellava errori su errori mentre l’altro era semplicemente magnifico. Sembrava volare su quella fascia. I suoi controlli spettacolari e le sue giocate di prima strappavano applausi, mentre tuo figlio inciampava sul pallone come fosse la prima volta che ne vedeva uno.

Tutto crollava. I tuoi sogni, tuo padre, tuo fratello con il collo rotto. Tua moglie e i suoi stracci. Tuo figlio. Tu. Avrebbero scelto l’altro. L’altro giocatore. Lui sì che era di un’altra categoria.

Lo stanno ancora cercando, anche se i giornali dicono che ormai le speranze di trovarlo in vita sono esigue, e che nessuno sa darsi una spiegazione di come un ragazzo modello, un gioiello, un futuro campione, possa sparire così nel nulla. Dicono bene, pensi. Nessuno conta i bidoni di acido e poi tutti rubano in fabbrica, quindi, conviene a tutti farsi gli affari propri.

Ma guardalo. Guarda il tuo ragazzo. Guarda le sue spalle ampie, potenti, guarda come luccicano i suoi muscoli in tiro.

Leggi, babbo, leggi il tuo cognome sulla maglia.

Tuo figlio si volta verso di te e ti fa un cenno con la mano per salutarti. Ti sembra meno felice di quanto dovrebbe essere. S’incammina insieme agli altri verso il centro del campo. Il seggiolino a fianco a te è vuoto. L’arbitro fischia l’inizio.

Gianni Somigli

Blam

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