Il racconto della domenica: La licenza di Stefano Lazzari

 Il racconto della domenica: La licenza di Stefano Lazzari

Illustrazione di Jacopo SIlvestri

Non si reggeva in piedi dalla stanchezza. Dall’oblò non si vedeva nulla. Si chiese come potesse esserci una nebbia così fitta, mai ne aveva incontrata tanta in mare. Non erano gli unici a doverla affrontare. In lontananza si intuiva la presenza di altre navi, tradite solo dai fumaioli. Avranno motori moderni, pensò; la combustione sembra essere buona, con quel fumo biancastro. Chissà quanti nodi faranno.

Sentì un dolore alla schiena, era sveglio da troppe ore; il doppio turno al timone del giorno prima lo aveva sfiancato. Era così stremato che non riconosceva nemmeno la sua cabina. Perfino la branda gli sembrò più comoda del solito, quando vi si distese. Devo chiudere gli occhi.

Inspirò profondamente, ripensò alla notte precedente. Erano passate solo ventiquattro ore? Il mare aveva cominciato ad agitarsi una volta che lui si era addormentato, rassicurato dalle vibrazioni familiari dello scafo. Poco prima di chiudere gli occhi, aveva provato gratitudine per quel motore che girava regolare e per le onde che avevano schiaffeggiato le fiancate della nave. Ci aveva fatto l’abitudine ormai.

Erano lontani i tempi in cui andava a pesca sulle lampare con suo padre e vomitava tutta la notte. Sorrise, ricordando il ragazzino che era stato, il vomito convulso per quelle misere ondine e la puzza di pesce mista a diesel.

Niente a che vedere con la tempesta del giorno prima. Com’era andata? Faticava a fissare i dettagli. Lo avevano tirato giù dal letto. O ci avevano provato, per chiedergli di tornare al timone, nonostante non fosse il suo turno. Lui li aveva mandati dove meritavano, ed era tornato a stendersi, era stanco. Pochi minuti dopo il rollio della nave lo aveva fatto rotolare sul pavimento, insieme alla carta per le lettere e all’astuccio con le penne, rimasti sul tavolino. Le onde si erano schiantate sulla fiancata, i motori erano andati su di giri quando l’elica era emersa dall’acqua. Avevano navigato al traverso e gli sbandamenti causati da vento e onde erano stati feroci. Con quel temporale aveva capito l’urgenza di precipitarsi in plancia, vista l’inesperienza del timoniere in seconda. Si era rialzato, si era vestito e si era sciacquato il viso con l’acqua fredda. Senza asciugarsi, la barba ancora gocciolante, si era diretto al timone. Aveva preso la barra e riportato la nave in rotta, e l’aveva mantenuta fino allo spuntare dell’alba, attraverso la tempesta.

Si rigirò su un fianco, le ossa doloranti. Saranno reumatismi? Ho bisogno di riposo. Si rese conto che non ricordava l’ultima licenza che si era preso. E sua moglie, come stava? E i suoi figli? Chissà com’erano cresciuti! Si sentì, in rapida successione, un pessimo marito e un padre assente. Poi si consolò, pensando che provvedeva a loro e che presto sarebbe tornato a casa, con dei regali per tutti.

Ma quando potrò andare in licenza? Si tirò su dalla branda. Dolorante, si rimise in piedi, raggiunse l’oblò. Era sempre stato così grande? Ancora nebbia e qualche sbuffo di fumo in lontananza. Si disse che avrebbe parlato al capitano immediatamente, doveva andare a casa. Al mare sì, ma sulla costa, al sole. Basta turni doppi, tempeste e brande. Si diresse in cambusa, dove il suo superiore passava le giornate ultimamente. Chissà che cosa leggeva tutto il giorno. E perché non andava in cabina?

«Capitano, io non ce la faccio più. Voglio scendere, ho bisogno di una licenza.»

L’uomo, seduto al tavolo, tirò su lo sguardo dal libro che stava leggendo. Le lenti a mezzaluna erano appoggiate sulla punta del naso, gli occhi scuri lo guardavano seri.

«Capitano, mi sente? Io voglio tornare a Otranto, in licenza. Devo andare dalla mia famiglia! Mi faccia scendere al prossimo porto.»

«Va bene, nostromo, va bene. Ora torni in cabina, si riguardi. Appena tocchiamo terra, potrà sbarcare.»

«Grazie, capitano, grazie.»

Il nostromo tornò sui suoi passi, strascicando i piedi. La porta della cucina si chiuse.

Isabella guardò Piero, con gli occhi lucidi.

«Sei fantastico, capitano, lo sai?»

«Hai preso il Tavor anche tu?»

«Cretino, dico davvero. Con mio padre sei molto paziente e trovi sempre le parole giuste. Io sto uno schifo a vederlo così.»

«Battuta infelice, scusami. Spiace tanto anche a me. Forse lo dovremmo riportare a casa sua, al mare. Milano non fa per lui

Stefano Lazzari

Blam

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