Il racconto della domenica: Furioso di Mauro Maraschi

 Il racconto della domenica: Furioso di Mauro Maraschi

Illustrazione di Francesca Galli

Quando alla fine l’AppLomb è diventato obbligatorio, dopo sette anni di dibattiti e sperimentazioni, io sul momento mi sono sentito la persona più felice del mondo, perché per tutta la vita mi sono sentito incompreso e di punto in bianco, nell’arco di una settimana, l’umanità intera è stata posta nella mia condizione.

Fin da piccolo, fin da piccolissimo, sono sempre stato incapace di perdere la pazienza, di rivendicare un torto, di farmi valere. Per tutta la vita ho sopportato e mi sono lasciato mortificare, sempre paralizzato dalla convinzione che a modo suo ognuno abbia ragione. Non sono mai riuscito a ricostruire le origini di questo relativismo, di questa tendenza iper-razionalizzante che mi ha sempre spinto a provare un’empatia artificiale nei confronti degli altri, un’empatia che non ha nulla di emotivo, di umano, ma che è soltanto la conseguenza della profonda comprensione che, dall’interno, le proprie ragioni sembrano sempre le più giuste.

Non ne ho mai rintracciate le origini, ma so che da piccolo questa mia tendenza non mi pesava così tanto. A lungo addebitai il tutto a una timidezza caratteriale, innata. Poi, arrivato al liceo, razionalizzai il fenomeno in modo più articolato: mi convinsi che ero semplicemente più lento degli altri; riducevo insomma la mia remissività a un problema di tempismo, e cercai di viverla con ironia; a un certo punto inventai una specie di motto, «quant’è arguto ciò che non ho avuto la prontezza di dire», e speravo che quel motto mi aiutasse a viverla meglio. Ma intanto rimanevo sempre indietro. Ci mettevo più di chiunque a formulare una battuta, e quando finalmente la battuta raggiungeva la forma ottimale, nella mia testa, era ormai troppo tardi, e non potevo far altro che tenerla per me, e rimanere in silenzio, e lo stesso succedeva quando mi prendevano in giro, mi rubavano qualcosa o persino quando mi insultavano: sempre e comunque io rimanevo paralizzato, stavo lì a pensare alla risposta migliore finché la situazione non si risolveva da sé e io mi ritrovavo da solo con la mia frustrazione.

Ai tempi però appunto riconducevo tutto questo alla timidezza e al tempismo, mentre oggi mi è chiaro che si è sempre trattato di iper-cerebralismo, qualcosa di profondamente connesso alla timidezza e al tempismo che non può però essere ridotto alla timidezza e al tempismo, perché è qualcosa di freddo e nobile: io non ho mai provato alcun imbarazzo, non sono mai diventato paonazzo, semplicemente mi fermavo, consideravo ogni singolo pro e contro della mia eventuale risposta, e lo facevo per il bene di tutti, pensando agli interessi di tutti, e andavo avanti così finché questi tutti non se n’erano andati. Da un lato ero persino orgoglioso di non essermi mai scagliato contro nessuno, dall’altro vivevo immerso nella più profonda e costante delle frustrazioni.

Per un periodo ho persino cercato di contagiare gli amici, dicevo a tutti che non aveva senso bestemmiare contro il quarto automobilista che non ti permette di uscire dal parcheggio, perché ogni automobilista è un caso a sé stante, non può saperne niente di quanti automobilisti non ti hanno già permesso di uscire dal parcheggio, e perciò ogni volta che qualcuno non ti fa uscire dal parcheggio bisognerebbe ricominciare da zero, azzerare il nervosismo, e pensare che abbiamo davanti una persona che non ci ha fatto niente, questo dicevo alla gente, e infatti io per anni ci ho messo ore a uscire dai parcheggi. Ma cercavo anche di convincere gli amici che non aveva senso arrabbiarsi con nessuno, e men che mai con gli sconosciuti, perché chiunque sta affrontando una battaglia di cui non sappiamo nulla, e quindi magari l’abbiamo soltanto beccato nel momento sbagliato, non possiamo sapere se l’altro non sia in realtà una persona adorabile con le persone che ama, anche se con noi è stato uno stronzo. Per anni ho cercato di contagiare qualcuno con queste idee, ma la gente ha sempre continuato a infuriarsi e a sfogarsi contro gli sconosciuti, e io sono sempre stato solo in questo mio buddismo.

Ma poi l’AppLomb è diventata obbligatoria, e tutto è cambiato: una scossa elettrica e la gente ci pensa cento volte prima di suonare un clacson, di dare dello stronzo a uno sconosciuto, di litigare alle poste, di picchiare i figli o di ammazzare la moglie. All’improvviso, e per alcuni mesi, ho sentito che non ero più solo, che tutta l’umanità viveva finalmente la mia condizione, che tutta l’umanità condivideva con me la frustrazione di aver compreso che la civiltà implica l’abbandono degli istinti più aggressivi. Ma poi, a un certo punto, mi sono reso conto che provavo un piacere indicibile nel provocare gli altri, adesso che nessuno può più reagire io ho costantemente il desiderio di dire a tutti quanto li odio, quanto sono stupidi e ottusi, e quanto sono stati ingiusti con me per tutta la vita. E questo avrebbe senso se il mio desiderio riguardasse gli amici, ma la verità è che, per assurdo, il piacere maggiore me lo dà proprio provocare gli sconosciuti, nei confronti dei quali non c’è alcun precedente. Non ho motivo di odiare delle persone se non mi fanno uscire da un parcheggio, o se mi rubano il posto in una fila, eppure sono proprio queste le persone che mi diverto di più a istigare, forse proprio perché non ho alcun modo di prevederne la reazione. Il punto è che, a un certo punto, ho verificato che AppLomb non mi limita in alcun modo: non ho mai ricevuto nemmeno una scarica, nemmeno una scintilla: evidentemente il software non riconosce quello che provo, forse non c’è un nome per la mia condizione. Ma gli altri sì, AppLomb li fulmina in continuazione ogni volta che li provoco, nell’arco di pochi mesi sono diventato un campione della provocazione, mi sono scoperto capace di sfogare su uno sconosciuto, in pochi secondi, anni e anni di frustrazione, io sono in grado di spingere un uomo a infuriarsi nonostante le scariche elettriche, a infuriarsi fino a morire carbonizzato, così com’è successo nei due casi che conoscete. Ma a questo punto io non mi aspetto nessuna clemenza, nessuna comprensione, perché sono sempre stato solo con la mia condizione, mi sono abituato, e non saprei nemmeno parlarne, perché non credo abbia un nome.

Mauro Maraschi

Blam

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