Razzo spaziale: un racconto di Nicole Vian
Un aspetto importante era quello della distanza. L’importante era, credo, essere quel qualcuno capace, non tanto di fare, quanto di esserci. Anche se distanti, ovviamente. Essere lì con lui e per lui. Una specie di compartecipazione ai suoi pensieri, alle sue azioni, alla confusione inscindibile dalla sua formazione.
La distanza era enorme, grande. Incolmabile, a volte. Eravamo nello stesso posto, nello stesso istante, ma eravamo così lontani che lui non mi vedeva mica, e credo non vedesse neanche gli altri che erano con noi.
Lontano il suo sguardo, che coglieva particolari a me sconosciuti, osservava le righe dove c’erano alberi e foglie, cercava la pioggia incessante in estate, ingranaggi dove c’erano piume, maschere di sapone dove l’evidenza era il mare.
I suoi piedi correvano distanze impossibili da misurare, erano passi velocissimi verso l’orizzonte oppure lentissimi, che tornavano indietro di stagione in stagione, come se il tempo si dilatasse e scoppiasse improvvisamente dentro l’ombra dei suoi salti, delle sue corse, dei suoi infiniti passi.
C’erano lettere, quelle dell’alfabeto, che volteggiavano vicinissime a noi, a me invisibili, ma per lui così concrete che le colorava con le dita. Ne faceva collane di fili di vento e poi le lasciava cadere in buchi neri o bianchi. Erano buchi o erano quadrati bucati? Chi ci poteva entrare, o anche solo sbirciare dentro?
Sottolineava il fumo del fiato in inverno, quello che quando si guarda da lontano sembra un fumetto, ecco, lui ne vedeva linee perpendicolari e spigoli, angoli di fiato che diventavano punte, e lì, in quell’istante, respirare faceva male: punte di prismi nei polmoni che ci allontanavano dall’aria, che a me sembrava di poter condividere. Almeno l’aria.
«Razzo Spaziale»: uscivano queste due parole, con questo aggettivo così forte che sembrava che dovessimo partire, io e lui, da un momento all’altro. Su, in spazi infiniti, neri, bui, ma con un razzo spaziale che a volte credo potesse essere pieno di luci in fondo, ad ammorbidirci le distanze con lo sfarfallio delle lampadine al neon. O forse no. «Razzo Spaziale, Marte, la Luna» e di colpo sentirmi in colpa per non aver studiato abbastanza astronomia, chiudere gli occhi e aspettare di vederla, la sua luna di stoffa, a volte di carta, a volte era anche solo una patatina appoggiata distrattamente sul tavolo. E tra i granelli di sale eccola, la luna!
E poco importa se il Razzo Spaziale, magari era il Falcon Heavy, lo si poteva vedere solo grazie ai tuoi, di occhi. E importa anche meno se il rombo del Razzo si poteva sentire solo grazie alle tue, di parole.
C’era, in quel posto e in quel momento, tutta la forza di un grande lancio.
I suoi confini invadevano l’universo, i capelli sembravano polvere nell’ovunque, le mani libravano tremanti a contatto con l’ossigeno e le ossa, e le sue si compattavano in un guscio di corpo.
Le gambe si raggomitolavano così strette da toccare i piedi, fermi nelle scarpe allacciate con cura; l’ombra non era però incollata alle scarpe, forse era già partita? Le braccia in tensione erano lunghe e partivano dalle caviglie per esplodere nelle stelle, in un atto scattante, veloce, come quando si stacca un cerotto dalla ferita: di colpo, uno strappo secco, senza tentennamenti, senza motivo quasi, anche se un motivo lui ce l’aveva, sempre.
E poi… Il Grande Lancio.
Tutto il suo fascio di muscoli si stendeva come una molla, un elastico, tirato dagli estremi, così teso che si poteva annusare la trazione, un’espansione tra il marciapiede e il cielo. Più che di marciapiede si trattava del bordo, il filo bianco del bordo che divide la strada, il ciglio esatto tra l’essere spazio per le persone, oppure per le auto. Non era spazio per lui, però. Lui, in quella tensione non era lì, era già nell’interminabile e senza confini, bello, blu.
Il naso all’insù spaccava le nuvole. Le lunghe ciglia spostavano le stelle per starci comodo.
Il Grande Lancio non si sarebbe placato. Io me ne stavo nel mio mondo banale, comprensibile a chiunque, a guardare lo spettacolo. A sorvegliare, direbbero alcuni, gli stessi che non l’hanno mai visto, il Grande Lancio.
E d’improvviso i suoi piedi si staccavano dall’asfalto e, con le gambe chiuse a guscio, succedeva un enorme salto raccolto quasi a sembrare un uovo, tanto da avere paura che si potesse rompere toccato l’asfalto di nuovo, l’uovo.
Quello che era questo volo non si esaurisce in una sola volta. Lui era capace di compiere i suoi salti in modo identico, in un tempo ininfluente. Sembrava che cinque minuti valessero cinque ore.
Un giorno c’era l’autunno: piccole pioggerelle poco accoglienti si presentavano alla finestra.
«Razzo Spaziale» diceva quel giorno dal caldo di un termosifone a righe.
Senza giacca, senza ombrello, senz’altro che sé stesso, cercò il suo punto di partenza. Con la giacca nella sua testa, con l’ombrello solo nella sua testa, lo accompagnai su quel cordolo, senza crederci.
E in un Grande Salto, il Razzo Spaziale fece un Grande, Grandissimo Lancio.
Bastò il tempo di uno starnuto, o di un lampo che sembra più a tema, forse… Comunque, bastò così poco a farlo volare che ebbi paura di non vederlo più. E le luci? C’erano. E il rombo? C’era anche lui.
Un Grande Lancio che sembrava inghiottirlo, allontanarlo e farlo diventare un puntino che si indica con l’indice della mano, dicendo: «Lassù!».
Invece, quel giorno, il Grande Lancio mi servì per accorciare le distanze: i miei piedi si staccavano dall’asfalto, e con le gambe chiuse a guscio, succedeva un enorme salto raccolto, quasi a sembrare due uova, tanto da avere paura che si potessero rompere toccato l’asfalto di nuovo, le due uova.
Un aspetto importante era quello della distanza. L’importante era, credo, essere quel qualcuno capace, non tanto di fare, quanto di esserci. Essere lì con lui e per lui, nel Grande Lancio, un po’ meno distanti. Ogni giorno. Un po’ meno.
Testo di Nicole Vian
Nicole Vian, dottorata in Scienze della Formazione Primaria all’Università di Milano Bicocca, interprete e formatore di Lingua dei Segni. Docente. Formatore autobiografo. Autrice di libri per bambini e di libri autobiografici a carattere femminile. Vive a Milano, in una casa da cui si vede il cielo a quadretti e le punte degli alberi cambiano colore in autunno. Ha un marito, un cane nero grande, e una bimba bionda piccola.
Illustrazione di Valentina Merzi
Valentina Merzi vive e disegna sull’acqua, a Venezia. È fotografa e illustratrice e ha una gatta nera, Mala, che è la sua critica più severa. Dopo gli studi in filosofia viene selezionata per una residenza d’artista della durata di un anno presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, espone in varie mostre in Italia e all’estero. Cura laboratori di comunicazione fotografica e uso dei media per alcune scuole e all’interno di progetti di reinserimento sociale.
Dal 2017 collabora con il Festival Camino Contro Corrente in qualità di direttrice artistica della sezione arti visive.
Qui sotto il racconto tradotto in LIS (Lingua dei Segni) da Nicole Vian