A volte è necessario: un racconto di Emanuele Finardi

 A volte è necessario: un racconto di Emanuele Finardi

Chi è felice è sempre buono.
Ma chi è buono non sempre è felice.
Oscar Wilde

 

A volte è necessario spingere la musica a tutto volume per trovare il coraggio.
Quando sono arrivato qui avevo una cinquantina d’anni, alle spalle un primo matrimonio fallito e concluso, una relazione ancora in piedi, nessun figlio ma un gatto. La piscina era lontana massimo cinque o sei canzoni.

Non ho mai capito il bisogno provinciale di ritrarre la piscina come un luogo fragile, fatto di acqua calda, cuffie indossate storte e bambini. La piscina è una creatura sottovuoto che vive e respira, dove l’acqua è un liquido prodigioso che accoglie in un altro piano di realtà: col suo alito umido crea echi e rimandi che poi non manca mai di attutire e velare.
Nessun movimento qui si compie con rumore, per mia fortuna: perché ho mangiato e risputato troppe parole anche oggi e il silenzio è l’unica via attraverso la quale il tempo si confidi un po’ con me, lasciandomi almeno qualche vocale nella laringe da proferire quando sarà di sicuro troppo tardi.

Chiunque di noi è fatto di cose che ha nascosto agli anni. Anch’io. Solo che ad un certo punto non si ha più l’età giusta per tenerle sotto il profilo dell’acqua, dove riposano protette dalla loro naturale possibilità di urlare. Sotto il pelo del liquido la nostra anima è aggrappata al corpo, la teniamo a bada malamente sino al momento in cui risale spinta dalla forza che la innalza dal fondo; in quell’attimo ci troviamo, alla stregua di chi non sa più nuotare, a tenerci alla corsia bianca e blu per non affogare: come se l’anima iniziasse a muoversi in autonomia, in modo asincrono, e il corpo non fosse più in grado di galleggiare. Da quel momento possiamo affiancarla, con le dovute cautele, per interrogarla, oppure semplicemente vedere come si muove con tale leggerezza sicura che il nostro corpo muto e pesante riesce solo a invidiare.

I movimenti dell’anima partono piano, quasi in sordina. Se però insisti a seguirla, ad un certo punto si nota un cambio di passo, e di scala, che dà una direzione precisa alla sua teologia e ne ispira la futura riemersione.

Mentre l’anima inizia il suo percorso di resurrezione, per il corpo le parole d’ordine diventano quelle della sopravvivenza: consumo e risparmio. È così che la portata potenzialmente rivoluzionaria che prima, nella sua giovinezza, aveva, viene assorbita, neutralizzata e reindirizzata. Non è possibile negare questa erosione delle membra e ci si sente investiti di una responsabilità sovrumana, partecipi di un’impresa epica, memorabile, dimenticando che tutto sarebbe molto facile e agile se solo l’anima se ne fosse stata buona e docile al guinzaglio. In questa situazione, il corpo come involucro si rivela inutile: un atto contro la natura che richiede una giustificazione o, peggio, un sacrificio cruento.

Un passo avanti e due indietro. Sul trampolino devo aspettare, anzi è necessario attendere. Bagnato. Impermeabile a nulla. Uno spaventapasseri indifeso. Desolante. Pura costruzione umana insidiosa perché priva di un Dio che renda ogni organo utile a un particolare scopo. Mi irrigidisco come una vera laude all’abolizione e alla deflagrazione di ogni presenza. Il niente immobile che si fa figura.

Un passo avanti e due indietro. Una volta sapevo eseguire movimenti in attitudine di volo a parecchi metri d’altezza dal suolo, vincendo la forza di gravità grazie a capacità di equilibrio e di coordinazione. Una volta, qui sulla piattaforma, ero presente a me stesso in maniera formidabile con forza elastica, mobilità, resistenza e reattività; senza esitazioni intermedie.

Il fatto è che a me esitare piace.

Fin da bambino non provavo alcuna eccitazione per il salto nel vuoto. Esitare mi ha sempre esaltato. Un tumulto d’enfasi suscitato da piccolissimi ritardi ripetuti e goduti sulla lingua, il palato, sino in fondo in gola, eccitante a tal punto da far passare del tutto in secondo piano l’obiettivo e la parola. Immobile e zitto come un innamorato. Fermo ma inquieto, in uno stato di continua attenzione in cui le capacità di percezione non conoscono tregua.

Per sanare, se pur in modo ingannevole ed effimero, l’assenza di tutto, con totale arbitrio manipolavo il mio lancio nel vuoto dandogli un volto, un carattere, delle intenzioni, delle parole. Adesso invece l’attesa, scavando il tempo, insultandolo quasi, mi colloca sulla linea di confine, senza che peraltro abbia alcun senso delle proporzioni. E delle conseguenze. L’arrivo o il ritorno al grande salto l’ho creato e ricreato nella mente per un numero di volte talmente infinito, e con una tale dovizia di particolari, da rendere difficile distinguere tra il tuffo reale e il suo fantasma.

Un passo avanti e due indietro. La ripetizione, talvolta ossessiva, di gesti sempre uguali, è ormai il mio unico ormeggio. Ah come vorrei poter fumare, controllare l’orologio, sedermi, camminare avanti e indietro ripetendo infinite volte lo stesso percorso, guardare fuori dalle finestre, fischiettare, leggere. Ma posso solo ricordare ormai queste cose e non c’è nessuno che soffia per scaldarmi le ossa.

Rimango inzuppato sin dentro lo scheletro con le mie interrogazioni senza ospitalità, come un quadro sospeso in alto sopra la nebbia creata dal cloro. Non resta che sciogliere i riflessi ai vetri, imbrattando la condensa, lasciando cadere i miei parametri vitali a terra. Una intensa vertigine dentro cui vedo chiaramente cosa potrebbe succedere, ma il risultato è lo stesso che se fossi cieco.

Mentre mi preparo a lanciarmi ricordo il comfort del mio pigiama, le fusa del mio gatto sul divano, la musica come terapia; ricordo anche che sulla schiena delle donne ci si salva. Ma chi si salva davvero forse non è qui. E non sono io.

Un passo avanti, due passi avanti, tre passi avanti e mi lancio. Finalmente.
Anche se non c’è acqua sotto i miei piedi.

 

Testo di Emanuele Finardi

Emanuele Finardi ha 49 anni, è veronese di nascita ma milanese di adozione. Ha iniziato a lavorare nel campo della comunicazione come giornalista e pubblicitario e attualmente lavora per la televisione. Ha pubblicato nel 2009 la raccolta di racconti “Bassa Macelleria Sentimentale” per Coniglio Editori, Roma, nella collana “I Lemming” e nel 2019 la raccolta “Il paradosso del respiro” per Ensemble Edizioni, Roma. Alcuni suoi racconti sono stati inseriti all’interno di raccolte per le case editrici quali Minimum Fax, Formiche Rosse, Damster, Eterna, Alcheringa, Montegrappa e Senso Inverso Edizioni. Con il racconto “Quasi come un romanzo russo” si è classificato al secondo posto nel concorso nazionale “Racconta un libraio 2019”.

Illustrazione di Lorenzo Cicerchia

Lorenzo Cicerchia è nato a Roma nel 1981. Si laurea in Storia dell’Arte e frequenta l’Istituto Europeo di Design, sviluppando nel contempo un forte interesse verso la pittura. Partecipa a diverse mostre collettive e personali e diventa assistente del pittore Marco Rossati. Parallelamente alla pratica delle tecniche antiche esplora le potenzialità della pittura digitale e inizia a lavorare come illustratore collaborando, tra gli altri, con il Luiss Creative Business Center. Vive e lavora a Roma.

 

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *