La precipitata: un racconto di Giovanna Ruffatto

 La precipitata: un racconto di Giovanna Ruffatto

Mira l’aveva incontrata nel letto 33 del reparto donne di ortopedia.
Quel pomeriggio era arrivata in ospedale in ritardo, e la collega le aveva dato una consegna veloce.
Solo quando l’aveva vista, si era ricordata che l’altra avesse detto: «La 33 è una precipitata».
Participio passato di precipitare. Cadere in basso, con molta energia. In questo caso l’impatto col suolo non era stato mortale. Non le aveva detto, però, che avesse quattordici anni.
Mira giaceva sul letto in trazione transcheletrica. L’arto inferiore destro sullo zuppinger, il lenzuolo sollevato dall’archetto. I pesi al fondo di un filo di carrucola lo trazionavano.

Lei bussò per farsi sentire.
«Ciao, sono l’infermiera in turno».
Mira la guardò fissa con quello sguardo che hanno solo i cerbiatti quando sentono il latrare dei cani dei cacciatori avvicinarsi.
«Non sono caduta come racconta mia madre,» rispose, «mi sono lanciata dal primo piano. Ma ho calcolato male: la prossima volta andrò al quinto. Non sento più le gambe. Nessuna delle due. Il dottore mi ha detto che è normale. A me non sembra.» concluse, «Si può vivere senza muovere le gambe?».
Poi Mira le strinse forte la mano, che lei ritrasse subito. «Scusami, ma io ho un problema con il contatto fisico», tagliò corto lei.
«Scusa» disse Mira.

Lei uscì. Non era stato il modo migliore di conoscersi.
Mira suonava di continuo il campanello quella notte. Era la vigilia di Natale. Era stata operata da poco e la madre voleva restare al suo capezzale, ma la ragazzina non l’aveva voluta.
«C’è la mia infermiera.» le disse, «Resti con me tutta la notte, vero?».
E lei annuì, perché il suo ragazzo non sarebbe venuto a brindare in ospedale e lei doveva trovare un modo per distrarsi.
Alla terza scampanellata le venne il dubbio che Mira l’avesse presa sul serio. Ma lei doveva lavorare. «Adesso basta!». Glielo avrebbe detto.
Restò sulla porta: «Che cosa c’è ancora, Mira? Vuoi che passi la notte a fare avanti e indietro per il corridoio? Non è proprio una bella idea, che dici?»

(Ti prego, è la notte di Natale e se lui non viene, è già abbastanza).

la precipitata_ illustrazione di valentina Merzi

La ragazzina la guardava, illuminata dalla luce notturna. Un cono di luce che risaltava i suoi occhi da cerbiatto.
«Ho paura» disse alla fine.
«Allora abbiamo fatto male a mandare via la mamma, forse era meglio che restasse?», le disse con un tono quasi di rimprovero, ma a tratti materno mentre le rimboccava le lenzuola. Ma poi ebbe timore che scendesse dal letto senza dirglielo, ora che non era più ancorata dalla trazione e la psichiatra le aveva dato il permesso di dormire senza sbarre.
«Questa notte sarà lunga, Mira. Cos’è che ti fa così paura?» chiese appoggiandosi allo stipite della porta.
«Sono gli spiriti, mi verranno a prendere».
Lei guardò nel corridoio, voltando il capo prima a sinistra e poi a destra.
«Non c’è nessuno» rispose.
«Allora non mi credi neanche tu come mia madre? Sei come lei anche tu?» urlò la ragazza.
Lei si avvicinò senza toccarla e le disse: «Ti porterei in una stanza a cerchio, se ci fosse.»
«Perché?» domandò Mira.
«Lì non ci sono angoli dove gli spiriti possano nascondersi”.
Mira si calmò.

Quella notte, però, era speciale e lei non si spiegava perché provasse per quella ragazza un senso di vicinanza. Non riusciva a toccarla, ma voleva poterlo fare per darle conforto.
A quel punto si allontanò un attimo e tornò con il carrello delle cartelle. Lo sistemò tra i battenti della porta e lì, in piedi, cominciò a scrivere.
«Che fai?» chiese Mira.
«Resto qui con te. Gli spiriti mi vedranno da lontano e non si avvicineranno», concluse.
«Non funzionerà», disse la ragazza.
«Fidati di me» rispose lei, mentre ricominciò a compilare i quaderni.
Suonò il campanello in un’altra stanza. Mira stava dormendo. Lei si allontanò perché nessun altro collega rispose alla chiamata. Risolta la questione e approfittando della quiete del corridoio, si fece un caffè. Lo spumante era in frigo: non avrebbe dovuto berlo in servizio, ma era già aperto. Di una sorsata non se ne sarebbe accorto nessuno.
Aprì la finestra e si accese una sigaretta. Stava trasgredendo tutte le regole quella notte. Era l’unico sistema che conosceva fin da bambina per sentirsi un poco felice.
Il cortile era deserto: nell’edificio di fronte erano accese solo le luci dei bagni e delle cucine. Pareva un albero di Natale triste.
Sentì la porta dell’ascensore chiudersi. Chi stava arrivando a quell’ora di notte? Forse era lui. Il cuore iniziò la sua corsa. Si diresse verso l’ascensore: i tasti si illuminarono in salita. Quinto. Schiacciò forte il tasto T.
Niente. Il cinque restava illuminato. Non poteva salire. Era bloccato. Quinto.
Glielo aveva detto il primo giorno in cui si erano incontrate.
Cominciò a salire le scale: gli scalini a due a due all’inizio, poi non ce la fece più. Correva, poi dovette rallentare al terzo piano. Il cinque era ancora illuminato.

Non sarebbe andata lontano. Le gambe non le muoveva più. Capì in un istante che aveva ragione lei, su tutto.

(Se lui non viene stanotte, non ti ama).

Doveva dirglielo. Arrivò al quinto. L’ascensore era bloccato dalla sua pantofola. Cominciò a urlare: «Mira! Dove sei? Mira, hai ragione tu. Mira, lui non verrà. Mira, ti prego. Ho solo te stanotte”.
Sentì sbattere la finestra del bagno. Corse. Mira giaceva a cavalcioni sul davanzale. La testa riversa già verso l’edificio triste. L’afferrò per la vita. La strinse a sé.
Mira le strinse la mano, più forte che poté. Lei la lasciò fare.
Gli spiriti si allontanarono senza fare rumore.

(Ti è mai capitato di toccare davvero qualcuno e di sentirti salva?)

 

Testo di Giovanna Ruffatto

Giovanna Ruffatto vive a Torino da quando è nata. È infermiera da trentadue anni. Da molto prima ha cominciato a leggere in modo ossessivo compulsivo. Dopo anche a scrivere, partecipando a corsi di scrittura creativa dell’Associazione Casseta Popular e dell’Assessorato della Gioventù di Torino, e a un corso di Paola Mastrocola. Ha scritto su Typee.

Illustrazioni di Valentina Merzi

Valentina Merzi vive e disegna sull’acqua, a Venezia. E fotografa e illustratrice e ha una gatta nera, Mala, che è la sua critica più severa. Dopo gli studi in filosofia viene selezionata per una residenza d’artista della durata di un anno presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, espone in varie mostre in Italia e all’estero. Cura laboratori di comunicazione fotografica e uso dei media per alcune scuole e all’interno di progetti di reinserimento sociale.
Dal 2017 collabora con il Festival Camino Contro Corrente in qualità di direttrice artistica della sezione arti visive.

 

Blam

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