Il racconto della domenica: Vestizione di Martina Manfrin

 Il racconto della domenica: Vestizione di Martina Manfrin

Illustrazione di Paola Cardamone

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Scaglio il cellulare contro il muro, colpisce lo spigolo del termosifone.

Avrei voluto esplodesse, invece lo schermo si crepa e smette di funzionare, nulla più.

Prendermela con la malattia non mi aiuta, sfogarmi sugli oggetti che non riesco a usare come prima non è di conforto.

Contatto Carola il lunedì, sono passate due settimane da quando il coraggio per chiamarla è stato assorbito dai tremori che mi hanno impedito di digitarne il numero di cellulare.

Le mando un messaggio, risponde subito, mi invita a bere un caffè da lei se lo desidero: la mattina è sempre a casa da sola.

Gliel’ho detto: ho riconosciuto il profilo del suo naso greco in mezzo alla folla accalcata al bancone del bar Brighton.

Il mercoledì mi attardo in ufficio per smazzare le rogne e quando esco mi fermo al cinema Rex per l’ultimo spettacolo: è questo che sanno mia moglie e mio figlio; all’inizio li avvertivo settimanalmente, ora è la regola e non do spiegazioni.

Il mercoledì in cui l’ho riconosciuta, Carola ha ordinato un gin tonic; la fissavo, il barista ha abbondato con il gin, due jigger stracolmi e una spruzzatina ancora: sono in confidenza. Quando si è girata per tornare al suo tavolo, ha guardato nella mia direzione, io mi sono voltato, ho puntato una sedia dalla parte opposta della sala, nell’angolo, e mi sono fatto portare una birra media. Odio la birra, mi gonfia lo stomaco, ma il cameriere si è avvicinato, io pensavo ancora a quel profilo greco che si allunga sul bancone e, straniato dalla sensazione di un riconoscimento ancestrale, gli ho detto ‘na bionda. Non una bionda, ho detto ‘na bionda. Con lo stesso tono che usano gli amici di mia moglie, quelli con cui usciamo a cena il sabato. Per tutta la sera, ho seguito la figura di Carola apparire e scomparire, fare la spola dal bar ai tavoli ai quali la reclamavano. Conosce tutti. Nel mio angolo non è arrivata, è quello sporco, su questa sedia la gente ci butta le giacche quando inizia lo spettacolo e si balla. Non è molto che frequento il bar Brighton, ci sono venuto quattro o cinque volte e non l’avevo mai vista prima. Non mi sono alzato, non le ho rivolto un cenno di saluto. Nei momenti in cui la perdevo di vista frugavo tra i contatti nel cellulare, per assicurarmi di avere ancora il suo numero. Era sempre lì. È salita sul palco intorno alle 22:30, ha cantato “Personal Shopper”, sua reinterpretazione in stile Marilyn Monroe di “Personal Jesus” dei Depeche Mode.

Alzava e abbassava le spalle scompigliando i capelli biondi. Premeva il microfono contro le labbra, portava avanti una gamba, poi l’altra, stringendole: i muscoli, si vedeva che erano tesi. Strizzava le tette tra i gomiti, scivolava con il culo verso il pavimento e risaliva, strusciandosi su un palo invisibile. Tutti guardavano lei e lei guardava tutti, indugiava in ogni sguardo; poco prima che incrociasse il mio, ho abbassato la testa. Con la penna ho riportato il suo numero sul tovagliolo di carta e l’ho cancellato dalla rubrica. Il tratto è incerto, spezzato, sono incisioni su pietra di un cavernicolo, o tratti su carta di un parkinsoniano. Getterò il foglio di carta nel fondo del bicchiere prima di andarmene, mi sono detto. Che senso ha contattarla? È troppo tardi per certe cose. La canzone stava finendo, quando ha preso uno dal tavolino di fronte al palco. Sarà il suo personal shopper, ho pensato, lo trascina per la cravatta, il cane, e se lo porta dietro le quinte.

Senza aspettare che tornasse alla ribalta sono uscito, urtando gli uomini in pista come un coleottero intrappolato in cerca di una finestra aperta.

Oggi vado a casa di Luca Zan, ho incontrato…, mio figlio chiude lo sportello dell’auto e, diretto verso gli amici, mi saluta con la mano. Lo accompagno a scuola tutte le mattine prima di andare in ufficio. Non volevo uscisse dalla macchina senza che gli avessi detto che sarei andato a casa dei genitori del suo ex compagno di classe. Devo essere quanto più possibile sincero: sono le piccole bugie a svelare i grandi inganni. Ringrazio Dio che mio figlio è un adolescente: di me, di sua madre, non ha tempo di interessarsi.

Piacere di rivederti, Carola sorride tendendo la mano che, se non fosse per il polso a tenerla attaccata al resto del corpo, le si staccherebbe attratta dalla forza di gravità. Ammorbidisco la stretta, perché dare sfoggio della mia virilità, stamattina, non è necessario.

Sono le nove e trenta di martedì, quando entro nell’appartamento spoglio della famiglia Zan. Le pareti sono state ridipinte da poco, il riscaldamento è acceso nonostante sia maggio, ogni angolo ospita una pianta.

Attraverso il salone, Carola mi fa strada: le fisso il culo e i polpacci, cammina sinuosa su un tacco dodici. Mi sono sempre rifiutato di indossare i tacchi e di vestirmi da donna, come avrebbero voluto facessi, a ogni Carnevale, gli amici di mia moglie. In realtà non hanno mai usato il termine “donna”, dicevano “Roccia, perché non ti vesti da puttana questo Carnevale? Dai che ci divertiamo”. Non l’ho mai pensata così. Da quando mi hanno diagnosticato il Parkinson, non me lo hanno più chiesto: un malato che cade dai tacchi fa pietà.

Mi accomodo sulla poltrona, lei si preme con discrezione il palmo della mano sull’inguine e si siede sul divano, le gambe accavallate, la punta del piede arrotolata dietro il polpaccio, le mani a cingere il ginocchio nudo.

Parliamo di cose senza importanza, nessun riferimento al motivo della mia visita, solo accennato nei messaggi che ci siamo scambiati. Prima d’ora ci siamo incontrati solo in due occasioni: una volta a un ricevimento generale, un’altra nell’ufficio della preside che ci aveva convocato per parlare del comportamento poco ortodosso dei nostri figli, compagni di classe.

Abbiamo ritenuto doveroso fermarci al bar e scambiarci i numeri di telefono, nel caso ci fossero altri problemi; poi mio figlio ha cambiato scuola e amicizie. Ricordo che parlammo del nostro lavoro di avvocati e dei pensieri che danno i figli, inanellando luoghi comuni per la durata di un cappuccino.

Mi schiarisco la gola. È un tic. Mi capita quando non riesco a dire ciò che vorrei. Dopo anni di matrimonio, mia moglie si è convinta che io abbia un’allergia agli acari, e su questa mia allergia ha costruito la sua vita, destinando quota parte del suo stipendio all’acquisto compulsivo di aspirapolvere di ultima generazione e di disinfettanti. So che vuole scopare quando vedo lo spray anti-acari appoggiato sul comodino in camera da letto. Ha persino impedito a mio figlio di prendere un cane. Anche a me sarebbe piaciuto un cane, l’avrei chiamato Ru, o Paul.

Carola si allontana e mi lascia solo. Fisso le pareti alla fallimentare ricerca di un quadro dove posare lo sguardo. Forse dovrei andarmene, sono ridicolo, patetico. Cosa mi aspettavo? 

Carola torna con una tazzina di caffè colma sino all’orlo. Dopotutto sei venuto per questo, sorride inarcando il sopracciglio.

Niente vassoio, né bricco del latte, né zollette di zucchero, piattino o cucchiaino.

Prima che possa ringraziarla, un tremito mi scuote e il caffè trabocca sul mio completo da lavoro.

Sono una sbadata, è tutta colpa mia, si scusa sollevandomi per il braccio. Cambiati, ti smacchio gli abiti, mi spinge in un ripostiglio e chiude la porta alle mie spalle.

È uno sgabuzzino cieco, dentro ci sono una panca piana, una scaffalatura per gli attrezzi e una sedia. La luce era già accesa. Sulla sedia, piegati e stirati, gli abiti: un top di raso rosso, calze dieci denari con cucitura posteriore bordeaux e una longuette nera; di fronte, un paio di decolleté col tacco. Non è alto, forse otto centimetri.

La sua voce rimbomba nello spazio angusto. Su vestiti, mi dice.

Obbedisco. Tolgo le scarpe facendo leva con la punta sul tallone, slaccio la camicia, sfilo i pantaloni e anche i boxer, ho un accenno di erezione.

Allora, sei vestita? Silenzio. Quindi? Tremo, ma non è Parkinson.

Apre la porta, mi giro. Ora devi solo trovare il tuo nome, per me è stato semplice.

Regge uno specchio ovale che mi inghiotte, e nell’immagine che mi vomita addosso, per la prima volta in cinquant’anni, mi riconosco.

Martina Manfrin

Blam

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