Il racconto della domenica: Tutto lì di Matteo Quaglia

 Il racconto della domenica: Tutto lì di Matteo Quaglia

Illustrazione di Sara De Grandis

Tutto, lì.

Il sole è un grande occhio incollato sulle mie chiappe di giovane maschio bianco e cattolico, e ogni cosa intorno a me è verde e azzurra; se tendo le orecchie il dettaglio dei fili d’erba e delle nuvole che scivolano nel cielo e della corsa del fiume vibra nel colore, e non c’è più niente da scoprire.

Il profumo della terra si mischia a quello dolce che Peccato ha detto di essersi spruzzata sulle clavicole prima di indossare la t-shirt a righe bianche e nere.

Anche adesso, Peccato affonda i suoi occhi dentro la mia faccia butterata da diciottenne e comincia a piangere.

La sua faccia è ricamata nei capelli sparsi tra i fili d’erba e l’orlo della coperta in pile azzurra, ed è così diversa da come tutti siamo abituati a vederla.

Non avevo mai visto una persona piangere nel bel mezzo del pomeriggio.

Peccato è stesa sul prato, sotto la mia pancia e sopra la coperta di pile di mia nonna, nel ritaglio di questo pezzo di primo pomeriggio nell’estate in cui non ho voluto prendere il diploma, perché in definitiva le cose importanti sono una moto e i limiti entro cui puoi spingerla, perché le preoccupazioni sono farfalle con le ali piene di polvere da cui basta non lasciarsi sfiorare. Tagliare un traguardo, non tagliarlo, adesso non conta.

E anche Peccato vibra, scossa dal pianto, ma tiene gli occhi incollati nei miei e lascia che le lacrime righino le sue guance bellissime, coperte da quel velluto invisibile di cui sono vestite le pesche; i miei jeans arrotolati alle caviglie permettono al sole di appoggiarsi sul mio culo glabro di giovane maschio con la pelle sudata. Peccato apre le labbra, ma emette un suono secco e non articola alcuna parola, come se la sua voce evaporasse nel formare le frasi.

Io bisbiglio: Peccato. L’ho attirata fino a qui con l’inganno.

Peccato spalanca gli occhi e si schiarisce la gola. Dice che non devo farlo, che posso ancora fermarmi, sennò basta che faccia presto perché poi deve andare a riempire la busta di plastica Lidl con un mucchio di robe e il caffè per il suo babbo che lavora la notte e di giorno è intrattabile.

Lo dice come se non le importasse.

Peccato ha una faccia bellissima e glaciale, capace di restare impassibile, di non tradirla, e tutti la chiamano Peccato perché ha un culo grosso e cosce elefantine, che strabordano l’orlo del pile e schiacciano l’erba. Lei è solita coprire quel grosso culo indossando jeans larghi e maglioni di lana.

Chi le ha dato quel nome ha pensato che fosse un peccato che una ragazza tanto carina avesse un corpo così grosso e pesante.

Anche adesso che le sue cosce nude e rosa sfiorano le mie gambe nude e rinsecchite ed entrambi affondiamo nel prato, scivolando per il pendio e fermandoci poco più in basso, negli occhi di Peccato c’è solo desiderio. Eppure è così liscia. Io la conosco troppo bene: il suo non è desiderio di me ma di qualcos’altro.

Peccato sa che sono stato io a inventare il nomignolo con cui tutti ora la chiamano e io ho diffuso il nomignolo a scuola, anche se lei abita nell’appartamento accanto a quello dei miei e questo avrebbe dovuto pur significare qualcosa; anche se lei mi spiava da dietro la tenda del suo soggiorno mentre io ero indaffarato con qualche liceale bionda e scheletrica, e sapevo che lei mi desiderava; anche adesso lei piange e dirige la sua mano profumata di detersivo da lavatrice verso le mie mutande senza chiudere gli occhi neanche per un secondo, mi afferra e mi porta più vicino a sé di quanto nessuno sia mai stato.

Dice vai, fallo e basta, ma mi fissa.

Mi ha seguito nella radura, tra gli abeti, le avevo detto che avremmo parlato delle solite cose con cui riempiamo il tempo, quelle che non può raccontare agli altri, dio e segreti e quella Patti che fuma l’erba e non gliene vende neanche un po’; lei che è solita dire frasi del tipo: pensa al mondo come a quell’istante in cui percepisci di essere vivo, al mondo, insomma, come un attimo per volta, ogni tanto; e invece poi l’ho gettata a terra e ho iniziato a svestirla, mentre lei mi fissava in silenzio.

Ho smesso di bloccarle i polsi. Ho teso le orecchie per assorbire il suono dei passi di sua madre che dentro casa, qualche centinaio di metri oltre il bosco, si muoveva per la cucina, e il respiro di suo padre che andava in apnea, e quei dettagli si sono fusi sfilando sopra i fili d’erba.

Lei ha chiesto: non vuoi scoprire se il mondo si può dilatare? Se succede qualcosa quando scegli davvero? E tutta quella sua tipica curiosità è passata tra le nostre facce umide di pianto.

E Peccato ha sussultato e si è zittita.

Mi ha abbassato i pantaloni con entrambe le mani e il sole si è posato sul mio culo di adolescente bianco e cattolico, Peccato si è stesa su quel mare di fili d’erba e pile, e alcuni dei suoi capelli sono diventati elettrici, si sono sollevati dal suolo. Il mondo era lì, a portata di mano.

Anche adesso che sono così vicino a lei che posso quasi sentire la sua tristezza riempirmi il cuore e credere che una sensazione simile sia reale e non dovuta al momento, e forse dovrei tirarmi indietro, lascio che il profumo di bucato e di incertezza mi penetri e la fisso negli occhi. Ormai l’attimo presente esiste e anche se ritratto potrebbe essere tardi. Lei mi fissa. Quello che Peccato mi chiede è se la trovi bella.

Quella è la domanda che mi fa adesso, oggi, lì.

Dice che posso, se smetto di chiamarla così. Peccato, intende. Che non si tirerà indietro. Che sarà come ho immaginato. Ogni dettaglio, lì, verde e azzurro e rosa.

Tra i fili d’erba che ci stanno crescendo attorno ogni secondo, tanto che posso ascoltarne il suono, tanto che immagino tutto quel verde cambiare colore e appassire, e il sole, e Peccato che piange ma anche ride con la faccia impassibile, e la parte di me che nessuno, escluso me, toccava da tempo, protesa verso di lei, assoluta; anche l’adesso in cui gli alberi che fanno da contorno crescono e si allungano sotto terra, invisibili, la mia moto ribaltata sull’asfalto di un parcheggio, anche adesso, proteso, aspetto che lei smetta di piangere e mi dica che posso e che lei si sente bella e non ha bisogno di chiedere niente né di ricevere nulla. E che io non ho bisogno di prendermi le cose, perché lei me le offre. Che possiamo essere davvero uno. Che possa perdonarmi e darmi una ragione valida per andare fino in fondo, dove nessuno è mai stato, non ancora. Nella sua purezza. Nelle nuvole sopra di noi, tra gli steli d’erba.

Ma lei non dice niente di tutto questo e invece mi fissa e urla: dimmi che sono bella.

Lei vuole essere bella. Non vuole essere Peccato.

Ripete: dimmi che sono bella.

Resta in silenzio e io aspetto che pronunci quelle parole che possano invertire il senso di ciò che sta succedendo.

E che il mondo si apra.

Lì.

Matteo Quaglia

Blam

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