Un colore che è un destino già conosciuto: «Scarpe viola» è il racconto di Valeria Colizzi

 Un colore che è un destino già conosciuto: «Scarpe viola» è il racconto di Valeria Colizzi

Illustrazione di Dario Licata

Mare, solo mare. Mare tutt’intorno. Questo vedi. Sei seduta su uno scoglio piccolo dalla forma quadrata, in mezzo al mare. Un blocco perfetto con una superficie liscia ma tu sei sulla punta. Fa male, quasi non resisti eppure stai lì. Guardi quella distesa d’acqua e ti sembra perfetta, immobile, densa, quasi aliena. L’infinito vorrebbe suggerirti un pensiero rassicurante, una promessa, ma tu sei già altrove. Per l’esattezza a quando avevi dodici anni e trascorrevi il tempo a odiare tua madre per come ti parlava, per come respirava, per averti messa al mondo e, in quel momento specifico, per averti negato, con tutta la cattiveria di cui era capace, le scarpe viola che tanto desideravi. «Porta sfiga» diceva. «A teatro porta sfiga! Non in seconda media!» Gridi, gridi forte, più che puoi. Le tue compagne indossano scarpe intonate al colore dei capelli e tu non hai altra scelta. Tu devi avere le scarpe viola perché, come dice quella stronza di Giorgia, il viola sta ai capelli rossi come i crackers salati stanno alla nutella: fatti per stare insieme.

«La vita è molto simile a una messa in scena, figlia mia, ti conviene fartene una ragione. Il viola in questa casa non ci entrerà mai.»

La senti la sua voce, ti tormenta e ti fa venire un prurito violento. Gratta, gratta più forte, in quel punto in basso vicino alla caviglia. Lì dove sta per uscire il sangue. Brava. Passato.

L’infinito, da uno scoglio appuntito in mezzo a un mare alieno, continua a lanciarti un messaggio di armonia e generosità, ma tua madre, come accade sempre, rovina tutto. È probabile che sia stata colpa delle maledette scarpe viola se hai bruciato l’unica possibilità di assumere un ruolo sociale di qualche rilievo durante l’adolescenza e in tutta la tua vita.

Ti perdi in pensieri rabbiosi che ti fanno diventare le guance rosse e chiazzate mentre vedi il mare muoversi e poi salire di livello, più su, sempre più su. Non sei preoccupata. Stai lì a guardare come fai tutte le volte con l’acqua della vasca da bagno che sale e sale fino a quando non chiudi il rubinetto.

Quest’acqua però cambia colore. Adesso è verde petrolio, lo stesso verde della piscina dei giochi senza frontiere dell’84, famosi per il clamoroso scandalo del giudice polacco, fidanzato del capitano dell’Azerbaijan, che, come si seppe in seguito, le negò la vittoria per vendicarsi di un sinistro e mai confessato episodio avvenuto la sera prima in albergo. Tu avevi sette anni ma le lacrime del capitano dell’Azerbaijan non le hai mai più dimenticate. Tua madre sostenne che il viola aveva portato sfiga anche in quella circostanza. Azerbaijan, divisa viola.

Senti le lacrime agli occhi e sei certa che se non le fermi subito piangerai per sempre.

Cerchi invano di spostarti dall’unica punta dello scoglio su cui sei seduta e da cui non riesci ad allontanarti. Alzi lo sguardo e scorgi in lontananza uno strano pesce. È grande, molto grande. Forse uno squalo. Vedi la pinna entrare e uscire dal mare alieno color petrolio e delle grandi braccia umane nuotare a stile. A te sembra normale, come se ne vedessi di continuo.

Si avvicina sempre più, cerchi di vedergli la faccia. Eh sì, pare proprio un pesce ma assomiglia incredibilmente a tuo cugino Livio quando aveva sedici anni. Lo avevi amato tuo cugino perché suonava il basso in una cover band dei Red Hot Chili Peppers ed era la fotocopia di Anthony Kiedis. Ti guardava in quel modo che non ti faceva dormire la notte. Livio non aveva la faccia da pesce, o sì?

Ti viene da ridere e ridi così forte che ti scappa la pipì. A quel punto il pezzo di roccia sul quale sei seduta inizia a sgretolarsi e le onde del mare si fanno alte, sempre più alte. Sono grosse e minacciose. Una bocca grande e affamata che vuole divorarti.

Cadi dal letto. Senti il pavimento freddo e ti fa male il ginocchio. Apri gli occhi ancora pieni di sonno e ti vedi stesa lì davanti, sei fuori da te.

La te che hai di fronte fa degli scatti con le gambe, trema come se avesse paura e piange nel sonno a occhi chiusi. Svegliati, stai dormendo, non penserai davvero che quelle onde verde petrolio aliene vogliano divorarti? Tranquilla, non morirai, nessuno ti divorerà. Non accadrà stanotte, ci sono io. Ti fa tenerezza vederla così. Ma lei non ti sente e continua a piangere. Faresti di tutto per rientrare nel sogno e vedere cosa sta accadendo ma hai il corpo paralizzato, non puoi fare nulla per lei. Decidi di avvicinarti e accarezzarle i capelli. Ti sveglierai, dovrai farlo prima o poi, pensi. Ma appena sfiori la ciocca appoggiata sul lato destro del viso, lei sparisce, si dissolve, non c’è più.

Ti guardi intorno in cerca di aiuto. C’è un letto con le lenzuola verde petrolio, ti piace quel colore. Al lato destro del letto c’è un uomo che non conosci. È nudo e dorme profondamente, russa, la mano appoggiata sul petto. Ti sembra molto stanco e la conosci quella stanchezza perché è la tua.

Ti siedi all’altro lato del letto e lo guardi. Che ci fai qui? Non la riconosci questa stanza, non è casa tua. L’uomo adesso sembra tormentato, come la te di un attimo prima distesa per terra. Dice spesso «no» e «mi dispiace». Più parla più ti pare di conoscerlo.

Ciao, sono Giulio.

Ciao, scusa ma è una brutta giornata.

Certo, capisco. Non voglio scocciarti è che ti guardavo da prima e mi ha colpito il modo in cui ti perdevi nella tazza del caffè.

Ah sì? In che senso mi perdevo?

Eri triste.

Cosa sei una specie di psicologo?

No, solo che osservo. Mi piace osservare la gente. E molti mi dicono che riesco anche a capirla.

Ma dai. E cosa avresti capito di me?

Credo che tu abbia un pensiero fisso. Qualcosa che ti tormenta.

E chi non ne ha?

È vero. Ma il tuo, credo appartenga alla categoria dei pensieri molesti, quelli di cui non ti liberi.

Sei bravo. Ma ti sbagli. Non si tratta di un pensiero ma di una persona.

Allora la faccenda si complica.

È mia madre. Abbiamo sempre avuto un rapporto complicato. Sta per venire a trovarmi. È un anno che non ci vediamo e la cosa mi agita. Ma perché ne parlo con te?

Perché, come ti dicevo, io capisco le persone.

Sei bella.

Anche tu.

Non andartene stai con me stanotte.

Non posso devo tornare a casa. Mia madre arriva presto domattina.

Resta.

Non posso.

Invece resti, decido io.

Non capisci. Non hai tempo di capire. In un attimo sei a terra. Senti qualcosa di caldo colare dai capelli. Odore di metallo. Sapore del tuo sangue. Lo senti in bocca, nel naso. L’onda verde petrolio è tutta dentro di te e tuo cugino Livio si allontana nel mare alieno senza fine. Hai le scarpe viola ai piedi adesso. Non le vedi ma sai che ci sono. Tua madre non dice più nulla. La sua voce non la ricordi più.

Ti volti e ti vedi di nuovo stesa lì a pancia in giù e gli occhi non sono chiusi come prima, sono aperti, fissi in un punto. Che espressione ridicola, pensi.

Non ci sei più in quegli occhi. Lo sguardo è andato via con te. Lui sa che sei lì ma non fa nulla. Dorme. Potrebbe aiutarti, avrebbe potuto farlo prima che fosse tardi ma non ci ha pensato. In fondo era andata così. Una notte e via, un colpo in testa e via. Chissà quante altre volte sarà accaduto o forse sei la prima, ma non importa più.

Le scarpe viola le avete indossate entrambe, la te sul letto e quella a terra. Ti piaci. Rosso e viola insieme stanno divinamente. Quella stronza di Giorgia non ha mai sbagliato un abbinamento.

Il telefono squilla. È lei, sai che è lei. È arrivata e non ci sei. Peccato. Le scarpe gliele avresti fatte vedere volentieri perché alla fine hai deciso tu, non lei. Un ultimo commiato. Ti direbbe che era vera la storia della fortuna che scappa via dal viola e tu le diresti come sempre che non ti ha mai capita davvero.

Ciao Mamma. Ciao mare, per me eri la cosa più bella al mondo.

 

Valeria Colizzi

Blam

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