«Se vuole scrivere romanzi, una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé», intervista impossibile a Virginia Woolf

 «Se vuole scrivere romanzi, una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé», intervista impossibile a Virginia Woolf

«Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?». Virginia Woolf fu una scrittrice anticonvenzionale, oltre che una fervente attivista all’interno dei movimenti femministi per il suffragio delle donne. Nessuno meglio di lei rappresentò il disagio femminile nei diversi ambiti della vita sociale. 

Abbiamo immaginato di chiederle di più sulle donne e le ingiustizie sociali subite. Questa è la nostra intervista, necessariamente fantastica!

Signora Woolf, lei ha scritto innumerevoli libri ed è stata una delle maggiori pioniere e rappresentanti del movimento femminista in ambito letterario. Posso chiederle cosa l’abbia spinta a scrivere? 

«Giovani donne affamate ma coraggiose. Intelligenti, fervide, povere; e destinate a diventare maestre di scuola». 

Uno dei suoi maggiori scritti è Una stanza tutta per sé, cosa l’ha spinta? E cosa possono aspettarsi le giovani donne da questo libro? 

«Non ho scritto Una stanza tutta per sé senza un notevole coinvolgimento, persino tu devi ammetterlo; l’argomento non mi lascia indifferente. E mi sono sforzata di mantenere una figura fittizia; leggendaria. Se avessi detto, “Guardatemi, sono ignorante perché tutti i soldi della famiglia sono stati spesi per i miei fratelli”, il che è vero, “Bene”, avrebbero detto, “ha il dente avvelenato” e nessuno mi avrebbe preso sul serio. Dalle mie labbra usciranno bugie, ma mescolate a esse potrebbe esserci qualche verità: sta a voi mettervi a cercare questa verità e di conseguenza decidere se in questo scritto ci sia almeno qualcosa che vale la pena di ricordare. Tutto ciò che potevo fare era offrire un’opinione su un aspetto secondario. Se vuole scrivere romanzi, una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé: e questo, come vedete, lascia irrisolto il grande problema della vera natura delle donne e della vera natura del romanzo».

La sua epoca è stata piena di restrizioni per voi donne. Ricorda un episodio in cui si è sentita limitata? 

«Ricordo che un giorno, mi ritrovai così a camminare molto rapidamente attraverso un prato. Immediatamente comparve a intercettarmi la figura di un uomo. All’inizio non capii che i gesti frenetici di quell’oggetto dall’aspetto bizzarro, con una strana giacca sopra a una camicia elegante, erano diretti a me. La sua espressione era di orrore e di indignazione. Quell’uomo era un guardiano, io ero una donna. Quello era il prato del college e più in là c’era il sentiero. Soltanto gli studenti universitari e i professori avevano il permesso di passeggiare sul prato, il mio posto era il sentiero». 

C’erano altre limitazioni oltre alla costrizione di non poter passeggiare da sole o non poter frequentare diversi luoghi? 

«Anche il cibo era diverso. All’interno dello stesso college il pranzo cominciò con le sogliole, adagiate su un piatto fondo, su cui il cuoco del college aveva sparso uno strato di panna bianchissima, ma punteggiata qua e là di macchie marroni simili alle macchie che si vedono sui fianchi delle femmine del daino. Dopo arrivano le pernici. Furono servite con un contorno di salse e verdure crude, piccanti e dolci in debita successione, e di patate, sottili come monete, ma non altrettanto dure, e di cavoletti di Bruxelles, simili a boccioli di rosa, ma più succulenti, e non appena la carne e i suoi contorni furono fatti sparire, il cameriere silenzioso, forse il guardiano stesso, ma in versione più gentile, ci presentò, circondato a mò di ghirlanda dai tovaglioli, un dolce che sorgeva inzuccherato. Chiamarlo budino e quindi regalarlo all’ambito di riso e tapioca sarebbe un insulto». 

Ciò accadeva anche all’interno dell’ambito letterario? 

«Soprattutto. Era quello il mio obiettivo del libro: dimostrare quanto le donne siano state discriminate in tutti gli ambiti umani. Le porgo un esempio. Sempre all’interno dello stesso college, cercai nella voce “Donne”, trovai la dicitura “condizioni delle” e andai alle pagine indicate. “Picchiare la moglie” lessi, era un diritto dell’uomo, e veniva esercitato senza vergogna sia dalle classi alte che da quelle più basse… Allo stesso modo, prosegue lo storico: la figlia che rifiutava di sposare l’uomo scelto per lei dai genitori poteva essere rinchiusa, picchiata e malmenata senza provocare traumi nell’opinione pubblica. Se la donna esistesse soltanto nella narrativa scritta dagli uomini, la si immaginerebbe come una persona della massima importanza; molto variegata, eroica e malvagia, splendida e depravata; infinitamente bella e repellente al massimo; grande quanto l’uomo e secondo alcuni persino più grande. Ma questa è la donna in letteratura. Nella realtà, come sottolinea il professor Trevelyan, veniva richiusa, maltrattata e picchiata. Era schiava di qualunque ragazzo cui genitori le avessero messo a forza un anello al dito». 

Oltre lei, tante sono state le donne che hanno cercato di mostrarsi al pubblico. 

«Le donne hanno avuto per tutti questi secoli la funzione di specchi dotati del magico e meraviglioso potere di riflettere l’immagine dell’uomo due volte più grande della sua statura naturale. Senza quel potere la terra sarebbe probabilmente ancora palude e giungla. Le glorie di tutte le nostre guerre sarebbero sconosciute. Eppure, era impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio di Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra le persone che lavorano dalla mattina alla sera, ignoranti e servili. Di tanto in tanto la luce di una Emily Brontë o di un Robert Burns squarciava il buio, e ne dimostrava l’esistenza. Ma certo quel genio non riuscì mai ad arrivare alla pagina scritta. Quando però si legge di una strega gettata nel fiume, di una donna posseduta dai diavoli, di una levatrice che vende erbe, o perfino di un qualche uomo molto importante che aveva una madre, allora penso che siamo sulle tracce di un romanziere perduto, di un poeta soffocato, di qualche muta e ingloriosa Jane Austen, di una Emily Brontë che si sarà fatta saltare il cervello nella brughiera o avrà vagato gemendo per le strade, folle per la tortura inflittale dal suo stesso talento. Anzi, mi spingerei fino ad affermare che “Anonimo”, che scrisse tante poesie senza firmarle, era spesso una donna». 

Ciò che lei sostiene è che le donne non sono mai state riconosciute abbastanza in ambito letterario. Ha degli esempi?

«È stata una donna, lo suggerì Edward FitzGerald, mi pare, a comporre le ballate e le canzoni popolari, canticchiandone per far addormentare i suoi bambini o per ingannare il tempo mentre filava, nelle lunghe sere d’inverno. Currer Bell, George Eliot, George Sand, tutte vittime di una lotta interiore, come testimoniano le loro opere, provarono invano a nascondersi usando un nome maschile. In questo modo rendevano omaggio alla convenzione, la quale, pur non essendo imposta all’altro sesso, veniva da esso liberamente incoraggiata (la maggior gloria per una donna è che non si parli di lei, sosteneva Pericle, egli stesso un personaggio alquanto chiacchierato), che la pubblicità è detestabile per le donne. L’anonimato scorre nelle loro vene. Sono state tante però, nei secoli successivi, ad aver avuto il coraggio di mostrarsi. Aphra Behn era una donna della classe media che possedeva le virtù plebee dell’umorismo, della vitalità e del coraggio: una donna costretta, dalla morte del marito e da alcune sue disavventure, a guadagnarsi da vivere usando l’ingegno. Doveva lavorare sullo stesso piano degli uomini. Guadagnava, lavorava duramente, abbastanza per vivere. Aphra Behn dimostrò che era possibile guadagnare scrivendo, ma occorreva forse sacrificare certe piacevoli qualità; e così a poco a poco, scrivere non fu soltanto sintomo di follia o di una mente impazzita, ma assunse importanza sul piano pratico. Centinaia di donne cominciarono a incrementare il loro denaro per le piccole spese o a correre in soccorso alla famiglia facendo traduzioni o scrivendo qualcuno degli innumerevoli dozzinali romanzetti che non sono più ricordati nemmeno nei libri di scuola, ma si trovano ancora sulle bancarelle di Charing Cross Road. Emily Brontë avrebbe potuto scrivere opere teatrali in versi; il traboccare dell’ampia mente di George Eliot si sarebbe dovuto riversare, quando l’impulso creativo si fosse esaurito, nella storia o nella biografia. E invece scrissero romanzi». 

Cosa suggerisce, quindi? 

«In primo luogo, avere una stanza per sé, e non diciamo una stanza tranquilla o a prova di rumore, era impossibile, a meno che i suoi genitori non fossero eccezionalmente ricchi o molto nobili, almeno fino all’inizio del Diciannovesimo secolo». 

Se potesse mandare un messaggio alle giovani donne a cui lei spesso si rivolge, cosa direbbe?

«Volevo chiedervi di scrivere ogni genere di libri, di non esitare di fronte ad alcun argomento, per quanto banale o vasto esso vi appaia. In un modo o nell’altro, mi auguro che vi impossesserete di abbastanza denaro per viaggiare e per oziare, per contemplare il futuro o il passato del mondo, per sognare sui libri e attardarvi agli angoli delle strade e lasciare che la lenza del pensiero si immerga profondamente in quella corrente. Perché non vi sto in alcun modo confinando al romanzo. Un migliaio di penne sono pronte a suggerivi cosa dovreste fare e l’effetto che raggiungerete». 

 

Le citazioni contenute in questa intervista sono tratte da:

  • Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, Feltrinelli, 2013

 

A cura di Cristina Stabile

Blam

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