Parabola di Canossa e della figlia ingrata: un racconto di Marco Marra

 Parabola di Canossa e della figlia ingrata: un racconto di Marco Marra

Illustrazione di Alessandro Grosso

Il vecchio Canossa apre gli occhi e decide che deve innaffiare le piantacce con la brodaglia che gli ha rifilato la figlia. Quella manigolda mi vuole ammazzare quell’ingrata quella maledetta quella furfante quella puttana, pensa Canossa. Canossa pensa che la figlia stavolta l’abbia avvelenata davvero la brodaglia che di tanto in tanto gli prepara e che, puntualmente, dice di voler avvelenare. S’alza il vecchio, scheletrico rattrappito smunto scarnificato appeso severo inacidito, e s’approssima verso l’angolo più buio del tugurio che abita. Nell’angolo buio s’accatastano pentole e forchette e tegamini e guaine e cavatappi e mestoli e pure una vecchia caffettiera tutt’arrugginita. Ci ficca la testa in quel nugolo di ferraglia e scava e scava e pare una talpa o un segugio rabbioso. Sguscia fuori stringendo un cucchiaio d’ottone. S’avvicina al tavolo mezzo crepato che occupa il centro dell’ambiente, sul tavolo sta la casseruola che contiene la brodaglia, la brodaglia è un rigurgito fetido zeppo d’ossame liquefatto e carni sminuzzate e pomodori spiaccicati e succhi di chissacché mescolati alla meglio. Canossa lascia che il cucchiaio affondi in quella palude commestibile o forse no e lo estrae per annusare un po’. Gli viene da vomitare, tossisce, tira su col naso, si raschia la gola, sputacchia. Afferra il bastone e s’appresta a uscire dal tugurio. Fuori è giorno ma è buio e tetro. Il cielo è invaso da nubi polpose che bubbolano e vaticinano l’avvento di cose nere. Ci sono un paio di pennuti che cercano di raggiungere lo zenit, si proiettano in perpendicolare e arrivano laddove oltre non riescono e ricadono giù in picchiata e poi risalgono e ricadono in un girotondo stupido e curioso. Canossa scruta l’orizzonte e l’orizzonte è una distesa di vegetazione in cancrena. Gli alberi sono spogli e intricati e si distorcono in assurde geometrie: i rami che s’uncinano e le foglie che si sgretolano. Le colline e poi la vallata che s’estende e più in là le montagne: malevoli e arcigne. Si dice che c’abitino cose strane, spiritelli o folletti o fuochi fatui, e per questo Canossa non c’ha mai messo piede. Avanza il vecchio e va in cerca della legna giusta per accendere il fuoco. Sceglie i legnetti più teneri, li raccoglie incurvando la schiena che scricchiola come una brandina logora. Quando ha finito rientra nel tugurio, sistema la legna sotto al caminetto e cerca d’appiccare il fuoco. Ci prova una due tre volte e solo alla quarta ci riesce. Prende la casseruola e la mette sul fuoco. Se ne sta lì ad attendere, riverso sulla sedia a mo’ di cadavere e con gli occhi chiari a echeggiare di fatti della gioventù che nemmanco ricorda. Attende e attende e attende e poi s’accorge che la brodaglia inizia a bollire. Quando la brodaglia inizia a bollire, Canossa s’approssima al fuoco e lascia piroettare il cucchiaio nella casseruola. Attende ancora un po’ poi decide che s’è cotta abbastanza e allora prende un paio di patte di stoffa imbottita e le utilizza per afferrare la casseruola bollente. La trasporta a fatica, rachitico secco sbilenco goffo, portandola sino alla finestrella che dà sul retro e la lascia sul traverso d’argilla solidificata. Canossa fa dietrofront, esce dal tugurio e circumnaviga le pareti sfogliose e sfibrate e raggiunge il retro. Il retro della casa è osceno: mattoni sgretolati, pezzi d’architrave ammonticchiati qua e là, zolle di terriccio secco estratte e catapultate dove una volta c’era un rettangolo di terra coltivata. Quelle ch’erano viti o forse pomodori o ancora peperoni, bene non si capisce e Canossa nemmanco se lo ricorda, ora sono tumescenze legnose storzellate e digrignate e strette e poi allargate. A dominare le altre ce n’è una più grossa, una piantaccia che fuoriesce dal terreno a mo’ di porro o bubbone o tumore, uno scroto argilloso coperto di gramigna e muschio e licheni che assurgono a colori che manco esistono. Che ne sa Canossa di quando è successo? Mica me lo posso ricordare, pensa. Si sofferma sulla piantaccia. Dice: «Maledetta bifolca meretrice dannata schifosa puuuh diavoleria puuuh ingrata svergognata infedele bestemmia bestemmiatrice infoiata strega». Dice tutte ’ste cose che nemmanco si capisce perché le dice a una pianta e dopo tossisce e s’inquarta e si raschia la gola e sputacchia. Afferra la casseruola e si scotta e quindi soffia e poi riesce a sollevarla e a rovesciare la brodaglia sulla piantaccia. La brodaglia viene assorbita dal terreno e brontola la poltiglia tanto che Canossa pensa che le radici si siano messe a masticare. Il terreno gloglotta e muggisce e s’avvampa e s’inumidisce e le piante si mettono a oscillare prima di qua poi di là e Canossa pensa che è per il vento ma i rami non fanno che sembrare braccia protese al cielo e i tronchi corpi smunti di streghe o succubi o sacerdotesse di una sorta di rituale. Canossa pensa: lo sapevo che quella brodaglia era velenosa, quell’ingrata mi vuole morto per davvero. Allora il vecchio fa ancora dietrofront e se ne va dall’altra parte, a fatica s’inginocchia e si prostra innanzi alla lontana silhouette della montagna. Lui sa che sulla vetta, lassù, c’è un crocefisso antico. Prega sperando che le sue preghiere arrivino fin lì e che quel simulacro interceda per lui verso l’Altissimo. Quando era bambino non pregava mai, se non quando sua nonna lo costringeva a farlo. Poi ha letto le storie dei patriarchi e i resoconti dei Vangeli, ha letto di Enoch e Matusalemme e Abramo e Ismaele, e di Marco e di Giuda e ha votato la sua vita all’adorazione della Beata Vergine Maria e pure del Santo Longino. È leggendo quelle storie che ha iniziato a decifrare i segni: gli agglomerati nuvolosi, i turbini di vento, le piogge scroscianti, i carri celesti.

Quando smette di pregare, Canossa s’è stancato. Sbilenco si solleva e se ne va nel tugurio. La notte cala con inquietante anticipo. Canossa se ne sta riverso nell’antro più tenebroso, rannicchiato con le mani affusolate e aguzze a stringere le ginocchia. Sente i rumori del buio: il latrato d’un segugio, il richiamo dei succiacapre, il vorticare della brezza. Canossa sente anche qualcos’altro, è un suono polposo viscido liquido untuoso. Se n’esce ancora dal tugurio. Sopra di lui il cielo è un guazzabuglio di stelle e nebbie e luci che sciamano e zigzagano attorno a una luna mastodontica e troppo grumosa per essere vera. La notte chiama Canossa e Canossa lascia che la notte lo strappi e l’avvinghi e lo risucchi e lo assorba. Circumnaviga il tugurio da destra verso sinistra, tenendo la mano appoggiata sulle pareti d’argilla. Quando arriva sul retro nemmanco riesce a crederci a ciò che vede. La piantaccia ora è un tumulo abnorme e ripugnante che ribolle e zampilla di una sorta di vita ch’è non-vita. La visione è talmente disgustosa che a Canossa gli viene da vomitare, e vomita e tossisce sangue e tira su col naso e si pulisce col braccio e sputacchia e rivolge ancora lo sguardo alla piantaccia. I rami della piantaccia sono sin troppo simili alle braccia di Canossa e le foglie rinsecchite e accartocciate alle dita di Canossa e le radici alle gambe scheletrite di Canossa e Canossa se n’accorge e nemmanco ha il tempo di tentare la fuga che un tralcio che pare un cordone ombelicale s’attorciglia attorno al suo collo e stringe e stringe e stringe. E il viso di Canossa si gonfia e s’arrossa e la vena che gli solca la fronte strabuzza e quasi esplode. S’appresta a morire il vecchio e prima di morire pensa: quell’ingrata alla fine c’è riuscita ad ammazzarmi. Poi si ricorda che una figlia non l’ha mai avuta, e nemmanco una pianta e nemmanco un tugurio come casa. Prova a gridare Canossa ma il grido gli si strozza in gola e la trachea gli si squarcia e alla fine muore. Attorno è buio, troppo buio.

Marco Marra

Blam

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