Un’amena visita in psichiatria: un racconto di Doriana Comandè

 Un’amena visita in psichiatria: un racconto di Doriana Comandè

Illustrazione di Massimo Ferrazza

Nel reparto psichiatria del San Giuseppe, la porta è sempre chiusa, anche durante gli orari di visita. Per farti aprire, devi suonare un citofono.

Una voce quasi impaziente ti chiede «chi è?» come se avessi citofonato a un normale appartamento di un normale condominio e avessi interrotto qualcuno durante un pediluvio o mentre stava pulendo il bagno. Mi sono immaginata, dall’altra parte, un infermiere con guanti di gomma rosa-porcellino. Per un istante sono stata sul punto di dire il mio nome, poi ho capito che devi dire il nome della persona che sei venuto a trovare.

Io mi trovo qui per una mia alunna che, una settimana fa, durante l’ora di matematica, è salita sul cornicione e ha minacciato di buttarsi dalla finestra.

La porta si apre con uno scatto metallico.

La prima cosa che ti viene incontro, una volta entrati, è la puzza stantia del fumo di sigaretta. Ovviamente il divieto di fumare è esteso anche a questo reparto, ma con un margine di tolleranza più elevato, per causa di forza maggiore: i pazienti non possono avere accendini tra gli effetti personali; pertanto, sono autorizzati ad accendere le loro sigarette con l’unico accendino presente in reparto e fissato al muro della portineria con una catena. I pazienti escono dalle loro stanze, vanno ad accendersi le sigarette in corridoio e poi si spostano verso l’enorme terrazzo su cui affacciano tutte le stanze.

In corridoio, comunque, non si vede nessuno. Nessun infermiere, nessun paziente. Le stanze non hanno porte. Sono molto grandi, stanzoni da campeggio parrocchiale, con soffitti altissimi. I muri sono in uno stato deprimente, anche se all’inizio c’è stata l’intenzione di pitturare le pareti con tinte vivaci, capaci di risollevare l’animo dei pazienti: rosa-salmone nel corridoio, cielo-estivo nelle camere. Ma oggi le tinte avrebbero bisogno di una bella ripassata e i muri andrebbero sistemati. Ci sono crepe, macchie, buchi nell’intonaco. Scritte. Ci si aspetta frasi molto ispirate in un reparto psichiatrico, ma stranamente non ce ne sono. La maggior parte è tutta una citazione di Vasco Rossi. Qualcuno ha scritto: «Mamma mi manchi». E: «Mamma ti voglio bene». Solo in un angolino una scritta recita: «L’elefante nel cielo non si diverte». È l’unica frase degna di un reparto psichiatrico, qualcosa che potrebbe alludere al genio visionario di chi è tormentato tanto dalla propria follia quanto dalla propria capacità di vedere cose che noi non vediamo. Ma c’è anche la possibilità che la frase sia stata lasciata lì da uno spiritoso infermiere o da uno spiritoso parente in visita che s’è guardato intorno e ha pensato: «Manca il tocco poetico della follia. Dobbiamo rimediare».

Tutto è possibile.

La mia alunna occupa l’ultimo letto del secondo stanzone che si affaccia sul corridoio. La prima cosa che noto è che il reparto è misto. Nella sua stanza ci sono le donne, in quella prima gli uomini.

Le dico che la trovo bene, anche perché non ho altre parole per dirle che temevo peggio. Lei risponde con un’inaspettata autoironia: «Ci credo. M’hanno riempita di farmaci».

Mi racconta, divertita, l’ultimo colloquio che ha avuto con lo psichiatra.

Lui: «Ti sembra di stare meglio? Oggi rifaresti quello che stavi per fare la settimana scorsa?».

Lei: «Se la settimana scorsa stavo imbottita come sto oggi, dotto’, no che non lo facevo, manco mi reggo in piedi».

Come ho già detto, i pazienti di psichiatria hanno a disposizione un terrazzo enorme, con vista su un parco. È una vista riposante, tutti quei grossi alberi che attutiscono un mondo fatto di strade e di macchine e di rumori. Sarebbe perfetto se non fosse per il muro di plexiglas che, a prima vista, nessuno nota. È solo uscendo sul terrazzo che te ne rendi conto. Sopra il balcone, è steso un telo scuro, che regala una piacevole ombra. Davanti, sulla ringhiera, si alza questa parete di plexiglas trasparente che impedisce ai pazienti di buttarsi. Lo hanno messo per me, dicono tutti quelli che sono abbastanza lucidi da poterci scherzare. Durante il breve tempo che passo in reparto, sento almeno tre persone fare la battuta del plexiglas anticaduta ai loro amici o parenti.

Devo dire che nessuno di noi qui si sente fuori posto, anzi, i farmaci somministrati conferiscono ai pazienti una cadenza rallentata che finisce per influenzare anche noi. Così sul terrazzo tutti camminiamo lenti, sorridiamo lenti e lasciamo svolazzare sul paesaggio pigri sguardi che non hanno fretta di posarsi su un punto preciso.

C’è solo un paziente un po’ agitato: è un ragazzo giovanissimo che blatera con voce impastata la volontà di ammazzare qualcuno, e intanto barcolla, e un uomo anziano, forse il nonno, deve aiutarlo a non cadere. C’è una donna bionda e magra, buttata sul letto, che non si toglie mai gli occhiali da sole. Ce n’è un’altra, con la vestaglia rosa e grotteschi occhiali a fondo di bottiglia, tipici di un cartone animato, che mi fissa per un tempo lunghissimo come se mi avesse fatto una domanda e fosse stupita di non ottenere risposta.

Con molta filosofia, i pazienti si lamentano del cibo che, come si conviene a un ospedale, fa schifo ed è servito nella cosiddetta sala mensa, una stanza con tavoli e sedie di plastica, che sembra la malconcia sala d’attesa di una stazione ferroviaria poco trafficata. Unico dettaglio su cui vale la pena soffermarsi: il piccolo televisore piazzato in un angolo del soffitto dentro una gabbia di grate e di plexiglas. Un televisore che non riceve alcun segnale dall’antenna, ma trasmette registrazioni senza audio di programmi andati in onda chissà quanto tempo fa. Quando sono andata in visita nel reparto, si vedeva un uomo ben vestito e ben rasato che parlava rispondendo alle domande di un presentatore in un salotto televisivo. Ho esternato, istintivamente, un mio pensiero al riguardo: quella tv non ha alcun senso, ma la mia alunna mi ha fatto subito notare che neppure la vita ha sempre senso, quindi abbiamo convenuto che, senza averne l’intenzione, il piccolo televisore nella sua gabbia inquietante è una perfetta metafora dell’insensatezza della vita.

Per consolare i pazienti di ciò per cui non possono essere consolati, noi visitatori portiamo in dono cibo gustoso. Merendine al cioccolato, biscotti, pizza, succhi di frutta, cotolette panate, panini con mortadella o salame. Qualsiasi cosa purché non contenga alcol o caffeina.

È questo che fanno le persone quando non sanno come rispondere all’insensatezza delle cose: la buttano in caciara col cibo.

Mentre mangiamo pizza farcita sul suo letto da ospedale, io e la mia alunna veniamo interrotte da una specie di seguace di Hare Krishna, un giovanissimo monaco vestito di arancio, un po’ troppo piacione per i miei gusti. Comincia a mostrare alle pazienti della stanza i suoi libri di risveglio spirituale e all’inizio penso ingenuamente che li stia offrendo in dono per guidare queste persone nel loro processo di guarigione. Sbagliato: è qui per vendere i suoi libri a gente talmente rincoglionita che difficilmente potrebbe capire la differenza tra un allegro uomo di fede e un imbonitore, ammesso che ci sia. E in questo momento non c’è. Decido di sfoderare il tono più affilato del mio repertorio da insegnante: «Scusi, non le viene in mente che sta disturbando una conversazione molto delicata?». In realtà stavamo parlando dei panini imbustati dentro i distributori a scuola e del loro sapore deliziosamente chimico. Il pio monaco, con il sorriso diventato improvvisamente più ampio e più rigido, scappa dalla stanza con tutta la sua mercanzia e la signora bionda con gli occhiali da sole, per la prima volta, sorride. Credo che mi abbia sorriso. Me lo sono fatto bastare.

Fuori dal reparto, ti aspetti che l’aria fresca ti faccia subito bene, che il mondo ti appaia più colorato, ma non succede, non nell’immediato.

Però alzi lo sguardo al cielo, questo sì, e d’istinto lo cerchi: l’elefante nel cielo che non si diverte.

Ma non lo vedi, forse perché si nasconde e invece si diverte. Di sicuro più di noi.

 

Doriana Comandè

Blam

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