Ci sono imprevisti che possono cambiare una vita: «La notte vola» è il racconto di Mara Abbafati
«Dai, daaai!»
«Quanto tempo abbiamo?»
«Sbrigati.»
«Se non so quanto tempo abbiamo non ci riesco, devo sentire la pressione.»
«Ma vaffanculo» dissi scuotendo il telefono mentre digitavo su Google «alba oggi».
«Sorge alle 5.58. Cinqueccinquantotto, dai!»
«E adesso che ore sono?»
«Cazzo. Le 5.43, cazzo.»
«Ci stiamo anche larghi.»
«Dobbiamo finire subito. Correre via. Levare la macchina da là.»
In ginocchio davanti alla buca con le mani a coppa che tremavano tiravo su la sabbia e ricoprivo la ragazza che era diventata tutta scolorita e a macchie. Non l’avevo mai visto un morto. Cioè, avevo visto mio nonno morto, stava sul letto, tutto vestito, pettinato, era più bello da morto che da vivo. Ma un morto vero, così, l’avevo visto solo nei film e pensai che li fanno proprio bene i cadaveri nei film perché era uguale, con la pelle grigia e le labbra viola.
«Su, è fatta» disse Mirko tirandomi il collo della felpa per farmi alzare.
Ero rimasto un attimo paralizzato, le ginocchia mi bruciavano, mi tirai su come un vecchio che ha problemi alle articolazioni.
«Guido io, non ti vedo bene» fece Mirko.
Gli passai le chiavi della Twingo verde acqua.
«Adesso la portiamo direttamente allo sfasciacarrozze, eh?»
Io guardavo fuori dal finestrino appannato senza rispondere, dal lato opposto al mare iniziava a schiarire, il finestrino sembrava bianco.
«Vado da tuo cugino, eh? Vado dal ciccione?» disse mentre schiacciava l’acceleratore fino in fondo.
«Sì, sì, va bene» risposi.
«E a tu’ madre chi glielo dice?»
«Non lo so, Mirko.»
Mia madre, quella Twingo verde, l’aveva comprata già usata, era di uno che faceva il rappresentante di prodotti per parrucchieri, ormai aveva quasi vent’anni e un sacco di chilometri.
«Mi invento qualcosa. Che si è fermata, che il ciccione è venuto a prenderci e poi l’ha schiacciata con la pressa perché non camminava più.»
«Un po’ generica come cosa.»
«Sticazzi, Mirko» sbottai. «Ci deve credere e basta.»
Usciti dal lungomare di Ostia, Mirko scalò in terza, imboccò la rotonda, le ruote di destra slittarono sull’asfalto umido di salsedine. La salsedine se lo mangia questo posto, speriamo che si mangi presto pure la ragazza morta che abbiamo sepolto sotto la sabbia, pensai.
«Ma questa proprio là doveva attraversare?»
«Te lo devi scordare» disse Mirko.
«Come cazzo faccio?»
«Se non ci pensi passa in fretta.»
Eravamo sul rettilineo, mancava poco, guardai il tachimetro, il display a caratteri gialli diceva 90 orari, il limite era 50, la macchina non teneva la strada e nemmeno la velocità, correva tutta sbarellata e ogni tanto si sentiva un cigolio. Pensai se ci ammazziamo almeno è finita, poi mi venne in mente Mirko, non volevo che morisse, però magari se facevamo un incidente morivo solo io. Sperai questo. Mi girai di nuovo verso il finestrino e chiusi gli occhi confidando in questa cosa, respirai riempiendo la parte bassa della pancia mentre pregavo dio: fa’ che la macchina sbandi, facci sfracellare contro un albero, fa che Mirko sopravviva, illeso, e che io muoia sul colpo. Era dal funerale di nonno che non andavo in chiesa, tre anni fa, ma dio c’è sempre per i suoi fedeli. Così dice mia madre, magari è vero.
Sentimmo una sirena. Mi sembrò di sollevare il culo dal sedile, ero rigido sulle gambe, mi girai a guardare dietro, il lunotto era coperto di condensa, vedevo solo il bagliore blu del lampeggiante.
«Vola» guardai Mirko. «Dobbiamo volare.»
Mirko schiacciava l’acceleratore, lo mollava e lo schiacciava di nuovo, come per caricare la velocità, ma la macchina più di così non andava. Eravamo a centodieci chilometri orari, sentivo il motore che strillava come un maiale, il cruscotto vibrava.
Dio, è giunto il momento, lo vedi quel pino marittimo sulla destra? Facci schiantare là, fai morire solo me, salva Mirko, ti prego.
La volante ci stava dietro, sempre più vicina, il pino marittimo era passato, anche lo sfasciacarrozze di mio cugino era passato. Non c’erano più alberi. Ci avviavamo verso la superstrada. All’imbocco, la volante ci superò schizzando via alla nostra sinistra. Mirko si girò verso di me con gli occhi sgranati, gli si allargò un sorriso. Allungò la mano, accese la radio.
«Non me porta’ a casa» dissi.
Mara Abbafati