Una minima infelicità di Carmen Verde: i luoghi della memoria nell’universo familiare. Recensione

 Una minima infelicità di Carmen Verde: i luoghi della memoria nell’universo familiare. Recensione

Una minima infelicità (Neri Pozza, 2022) di Carmen Verde è un racconto familiare, in cui la riservatezza diviene grazia poetica che tende le parole e fa vibrare le corde emotive di chi legge.

Prima di questo romanzo, la scrittrice campana, originaria di Santa Maria Capua Vetere e oggi trasferitasi nella capitale romana, aveva pubblicato racconti in riviste, plaquette e antologie. Nel 2014 Verde è stata fra i vincitori del premio Racconti nella rete nell’ambito del festival LuccAutori, e l’anno successivo si è qualificata seconda al premio Zeno con il racconto Guida astronomica al Grande Raccordo Anulare. È coautrice, insieme ad Alex Oriani, del romanzo Tutta la vita dietro un dito (Salani, 2019), che ha ottenuto la segnalazione alla XXI edizione del premio Calvino.

Una minima infelicità di Carmen Verde: la trama del libro

«Tremenda fortuna essere alti. Avere la fisica impressione di tutto il proprio essere. Noi piccoli dobbiamo sempre integrare, col pensiero, ciò che di concreto manca al nostro corpo. Una parte di noi è pura astrazione. Siamo spettri per metà».

Annetta Baldini è una bambina minuta, di statura al di sotto della media, di una piccolezza fuori dal comune. Le sue proporzioni minime, il suo corpo «contratto», la rendono diversa da tutte le ragazzine della sua età. Mansueta e ubbidiente, Annetta è incapace di ribellarsi allo scherno e alla derisione delle compagne di classe: più alte, più altezzose, più sicure di sé. La «dismisura fisica» diviene per la protagonista – voce narrante dell’intero racconto – un motivo di vergogna, un segno che la marchia sin dall’infanzia, condizionando la sua percezione della realtà e del posto che occupa nel mondo. Sogni e aspirazioni sono infatti modellati da Annetta in modo direttamente proporzionale al suo essere, sono «ridotti» alla sua misura: «Sempre, alla fine, di tutto resta solo il nocciolo, come di una casa rimane solo una piccola stanza. Persino il mio corpo ha scelto per me l’essenziale, sapeva di non essere nato per grandi cose».

Intanto, a dare senso e valore alla vita di Annetta è il rapporto di dipendenza dalla madre, Sofia Vivier, un personaggio sfaccettato, a tratti enigmatico, e, forse per questo, fascinoso e inafferrabile. L’immagine che si va delineando di Sofia, attraverso le parole e i pensieri di Annetta, è quella di una donna fragile e inquieta, insoddisfatta e infedele, alla costante ricerca della propria felicità. Per Sofia, l’unica ragione di vita è l’amore, e per tutta la sua esistenza cercherà, invano, di trovarlo, a dispetto dei suoi doveri coniugali e nonostante gli sguardi indiscreti dei vicini, le maldicenze e i pettegolezzi dell’intera comunità. E se Adelina, madre di Sofia e nonna di Annetta, era detta la «pazza» perché rinchiusa in un istituto psichiatrico prima e morta suicida poi, Sofia sarà la «puttana» sulla bocca di tutti.

Gli eventi narrati, trainati tutti dalla rete dei rapporti interni alla famiglia Baldini, vengono d’un tratto turbati dall’arrivo in casa di Clara Bigi, la nuova domestica, una donna autoritaria, severa e arcigna, che in poco tempo assumerà il totale controllo della casa, impartendo ordini e dettando norme di comportamento, e intervenendo direttamente sull’educazione di Annetta. La capillarità con cui Clara si insinua nelle relazioni familiari, alterandone dinamiche e fisionomia, è esito non solo e non tanto della sua scaltrezza quanto della passività di Sofia e della remissività del marito Antonio, ricco commerciante di stoffe, succubi entrambi della prepotenza della donna, incapaci di intervenire con decisione e obiettare alle sue pretese e ingerenze. Con il tempo, schierarsi contro di «lei» – così Clara viene chiamata in casa – diviene motivo di avvicinamento tra Annetta e Sofia, finalmente alleate in una battaglia comune. Ma quando Clara verrà sollevata dal suo incarico, le due perderanno, di nuovo e per sempre, quell’unico filo di complicità che le teneva legate, tornando a essere la madre e la figlia che erano sempre state: «Un nuovo silenzio cadde tra di noi, occupando il posto che era stato di Clara. E a me sembrava di stare peggio, quasi desideravo altre disgrazie, qualcosa che di nuovo potesse avvicinarci».

La morte del padre Antonio e la successiva chiusura del negozio di stoffe, a causa delle spese onerose che Sofia da sola non è più in grado di sostenere, imprimono un’accelerazione allo sfilacciamento dei legami coniugali e filiali, ordito con operosità costante e silenziosa, fino alla morte di Sofia: l’ultimo drammatico strappo nella vita di Annetta. Il leitmotiv del racconto è un’infelicità che ha i modi dell’ipocrisia piccolo-borghese, e la voce di un silenzio che presidia e picchetta confini invisibili tra i membri della famiglia. Quest’infelicità, mai sguaiata e meno ancora grandiosa, è insieme il collante della vita condivisa e il fossato che trincera e separa il padre, la madre e la figlia. Ognuno di loro, avvinto da una passiva rassegnazione, è destinato, alla fine dei conti, a una «minima infelicità»: «La vita non è meno della letteratura. Bisognerebbe studiare a scuola l’infelicità delle nostre madri».

Le stanze della memoria e l’universo familiare

La narrazione di Carmen Verde si svolge prevalentemente all’interno delle pareti di casa, in un ambiente a tratti claustrofobico, che solo in alcuni casi si schiude ad abbracciare piccoli squarci esterni: dal profilo rossiccio dei platani in lontananza all’orizzonte del mare, dal negozio di tessuti di Antonio al cortile della scuola di Annetta. Le stanze interne alla dimora dei Baldini funzionano per l’io narrante come luoghi della memoria, e diventano metafora di segreti mai rivelati, di possibilità non esplorate, di anime in fondo mai conosciute.

L’ambiente domestico, lungi dall’essere luogo di prossimità e intimità, ospita la lontananza tra le persone che lo abitano e contribuisce alla rarefazione di legami che orbitano intorno a un rapporto madre-figlia segnato dalla dipendenza. L’ossessività del legame e il desiderio di compiacere la madre è una pulsione manifesta e manifestata da Annetta nei pensieri e nelle azioni sin dall’inizio: da quando in classe guarda assorta dalla finestra in attesa dell’arrivo della madre a ogni gesto volto alla ricerca di un segnale di riconoscimento e approvazione. E più Sofia è disattenta a cogliere le richieste di affetto della figlia, più è manifesta la carenza di amore, più l’attaccamento di Annetta si fa smisurato: spia la vita della madre, cercando di penetrarne l’universo ambiguo e misterioso, e i silenzi indecifrabili. Ben presto Annetta scoprirà i tradimenti e l’insoddisfazione di Sofia nel matrimonio con il marito, quell’uomo che aveva scambiato la moglie per una cliente come tante entrata in negozio.

Non meno segnato dall’incomprensione e dalla distanza è il rapporto tra Annetta e suo padre Antonio, uomo infelice, presenza silenziosa e anonima in casa, consapevole dell’infedeltà della moglie, e ormai privo di ogni entusiasmo per la vita. Annetta inizierà a capire suo padre solo quando è ormai vecchio e segnato dagli anni, e rimpiangerà il tempo passato a non riconoscere né godere della sua presenza.

Ma è la morte della madre a consentire ad Annetta il passo verso una maturità inedita, l’inizio di una nuova vita, che non potrà tuttavia prescindere dai ricordi del passato, e dovrà convivere con i fantasmi rimasti ad abitare le stanze della memoria.

La scrittura di Carmen Verde in Una minima infelicità

La penna dell’autrice è un passe-partout che schiude i sentimenti dei personaggi e permette l’accesso ai luoghi reconditi della memoria di Annetta, dagli anni dell’infanzia, passando per l’adolescenza, fino alla maturità. La scrittura di Carmen Verde in questo romanzo è duttile, scorrevole, delicata, confidenziale. Una storia dal sapore dolce-amaro, sorretta da una prosa poetica che imprime a dolori minuti e ordinari la forza della ferita universale.

A cura di Clara Frasca

Blam

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