CreaVità: laboratori, percorsi educativi e scrittura. A scuola di vita con Chiara Gamberale

 CreaVità: laboratori, percorsi educativi e scrittura. A scuola di vita con Chiara Gamberale

I pupazzi delle emozioni, il pianoforte, la lavagna, le nuvole appese, il respiro degli altri. Non siamo in una stanza onirica, ma nella casa di CreaVità, un posto felice messo su dalla scrittrice Chiara Gamberale a Roma. Laboratori, percorsi educativi e scrittura. Se volete potete chiamarla scuola, però abbiate cura di definirla «scuola di vita» perché qui si impara a ragionare, a relazionarsi, a emozionarsi, a connettersi con l’altro e restituire quello che mente e corpo ci regalano ogni giorno, e che spesso ci sfugge. Un luogo in cui riappropriarsi di quello che ci è stato tolto: l’altro.

Si leggono classici, si discute, si scrive, si disegna, si fanno dei veri e propri laboratori con personalità del mondo della scrittura, arte e musica. Sono passati (o passeranno) a dare il loro contributo Emanuele Trevi, Rodrigo D’Erasmo, Daniele Mencarelli, Nicole Grimaudo, Niccolò Fabi, Erica Mou, Marina Rei.

E siccome CreaVità è una piccola riproduzione della società che pensa, ragiona e argomenta, più che un’intervista, qui di seguito leggerete una conversazione riflessiva (e salvifica) con Chiara Gamberale, che ci spiega com’è nato il progetto, cosa si fa, com’è strutturato, chi ci lavora e chi lo vive. Buona lettura!

Che cos’è CreaVità e come nasce?

CreaVità nasce da una mia forte esigenza. Ho esordito a 19 anni con Una vita sottile (Marsilio, 1999 [n.d.r.]). Oggi ne ho 45. Ho visto la mia passione presto trasformarsi in una professione e tante cose le ho perse per strada. E di alcune me ne pento. Da questa vita ho avuto sicuramente tanto, più di quello che la bambina che sognava di diventare una scrittrice, in una famiglia di numeri, ingegneri, ragionieri, avrebbe mai immaginato.

A un certo punto, però, ho sentito l’esigenza di restituire. Non ho fatto mai segreto della mia lunga adolescenza dolorosa, e in un momento storico come questo, vedo i ragazzi soffrire. L’adolescenza è quel momento in cui arrivano gli altri, e ai ragazzi di questa generazione sono stati tolti gli altri. I social, inoltre, credo abbiano una grandissima responsabilità nel malessere degli adolescenti di oggi: apparentemente tutti sono connessi con tutto e con tutti, eppure non sono connessi con quello che davvero gli fa male o appassiona. Se qualcuno mi chiedesse: «Come ti sei salvata in adolescenza? Cosa ha vinto ed è stato più forte del tuo buio?». Risponderei: «Quello che mi piaceva fare: leggere, scrivere, i ragazzi, viaggiare».

Oggi questo muscolo lo sento rammollito. E quindi ho pensato di creare una scuola, non per diventare artisti, ma dove attraverso l’arte si possa ricontattare sé stessi e farlo insieme agli altri. Dunque, CreaVità in origine è stata pensata per gli adolescenti. Immaginavo uno spazio dove, attraverso la scrittura (con me), la musica, l’arte visiva e il teatro si potesse riconnettersi con il proprio nucleo, per ognuno diverso, che ha a che fare con quello che ci piace, con la gioia per la vita.

Nel frattempo stavo traslocando da una casa che amavo molto, questa (a Roma, nel quartiere Monti [n.d.r.]), ma mi sono detta: anziché affittarla la faccio diventare la sede della scuola. La fatalità di CreaVità qual è stata? Essere impostata per gli adolescenti, e non ricevere nemmeno un iscritto in quella fascia d’età. Adesioni tra i 25 e i 60 anni: tantissime! Non sappiamo dove metterle. La più giovane ha 19 anni, la più grande una settantina.

Proviamo a dare una spiegazione a questa «fatalità». Da quello che mi racconti, il senso di CreaVità sta nel riconnettersi con sé stessi, con il corpo, con quello che ci abita dentro. Ma mi chiedo: i ragazzi di oggi sanno cosa significa? I millenial, ad esempio, sono stati la generazione di passaggio dall’analogico al digitale, quelle future sono completamente digitali. Quindi, loro hanno mai conosciuto questa riconnessione con il corpo? Forse noi millennial, o anche le generazioni precedenti, abbiamo l’esigenza di risintonizzarci con quello che è stato perché quello di oggi non ci piace?

Quindi mi stai dicendo che loro non avendolo provato, non sanno di cosa si parla? È il motivo per cui li vorrei qui! Quando mi si chiede se possiamo fare incontri virtuali, io rifiuto. Il senso è ritrovarsi qui. È necessario farlo insieme.

Sin dal primissimo incontro si comincia con un questionario ricalcato su quello più famoso di Proust. Le prime domande sono: qual è l’emozione che più ti abita? Qual è quella che vorresti frequentare di più? Cosa ti fa piangere? Cosa ti fa ridere? Sono quesiti che ci siamo persi e ti chiedi il motivo per cui là fuori non ci incontriamo chiedendoci questo genere di cose.

E la scrittura come si inserisce in tutto questo?

Sono affiancata da straordinari professionisti come Michela Monferrini e Mattia Zecca. Con me si fa un lavoro di pensieri e parole, con le altre tre discipline c’è l’abbandono, il corpo, l’emozione, dove vengono mollate le connessioni logiche. Le mie non sono lezioni di scrittura vere e proprie, ma una decostruzione delle difese razionali. In un primo esercizio i partecipanti sono chiamati a scrivere una lettera da parte del bambino che sono stati a un adulto che avrebbe potuto salvargli l’infanzia. Andiamo, quindi, a scomodare quella voce selvaggia, maleducata che magari non si esprime nemmeno bene, ma è la voce istintiva che ha a che fare più con il corpo che con la ragione.

Consapevolezza, riconnessione con il corpo, andare a scavare nell’io più intimo. Mi sembra di notare un avvicinamento alla psicologia. È un’impressione, un caso o è voluto?

Premetto che odio gli psicologismi nella scrittura. In questo caso, credo si tratti più di «psicomagia» alla Jodorowsky. Di sicuro c’è qualcosa che ha a che fare con gli esperimenti dello psicodramma perché di volta in volta un altro partecipante è chiamato a impersonare il genitore a cui la lettera è stata rivolta, ad esempio. Questo spazio, poi, ci viene incontro. Lì c’è un camino, e mi è venuto istintivo chiedere di bruciare le lettere dopo esser state scritte. E questo è proprio un gesto psicomagico.

Come sono strutturati i corsi?

I percorsi sono di tre tipi: quello annuale da ottobre a maggio con un incontro settimanale il giovedì, quello intensivo nei weekend (un solo weekend [n.d.r.]), e quello di dieci lezioni del martedì.

Prendendo ad esempio quello annuale, ci si incontra ogni giovedì per tre ore. La parte più massiccia è quella della scrittura, con me. Come dicevo prima, il mio percorso va a scomodare inizialmente la voce bambina, maleducata, dopodiché si mette quella voce al servizio di altri personaggi. Si passa poi al dialogo e si conclude con il racconto. Tutto questo punteggiato da letture di classici che possono ispirare.

Chi sono gli altri insegnanti e quali sono i percorsi?

Music feeling è il laboratorio musicale di Pier Cortese. Si dedica ogni incontro a un’emozione: la gioia, la rabbia, la nostalgia, la paura, facendo una cavalcata nei secoli attraverso i brani, le canzoni che hanno provato ad addomesticare quel tipo di emozione, e si fa sempre con un ospite. Per la nostalgia, ad esempio, è venuto Rodrigo D’Erasmo con il violino, per la paura c’era Erica Mou.

Poi ci sono le due attrici: Viviana Colais e Elettra Mallaby. Con i loro percorsi c’è abbandono della razionalità. Si fa improvvisazione teatrale e si lavora con la musica e il corpo.

Infine c’è Sabina D’Angelosante, specialista in Storia dell’arte. Anche qui si gioca con arte, corpo e fantasia. Ad esempio, si disegna con la mano con cui non siamo abituati a scrivere, o a occhi chiusi o mascherati.

Non ti ho chiesto una cosa fondamentale: come nasce il nome CreaVità?

Quando ho messo queste persone attorno a un tavolino ho chiesto: che ne pensate di «Crea Vita»? Mi figlia si chiama Vita ed era un gioco di parole con creatività. Perché di questo stiamo parlando, di creatività. E va fatto scivolare il concetto di creatività legato solo a una questione artistica. Che cos’è la creatività? È il modo di rispondere alla vita, di inventarsi delle soluzioni. Quindi mi piaceva giocare con questa parola perché la creatività crea vita. Però «Crea Vita» ci sembrava un po’ qualcosa di «antiabortivo» (sorride [n.d.r.]). Ed Elettra, che è sempre magica, ha detto: «Allora “CreaVità”!».

C’è un prima e un dopo CreaVità? Ci si trasforma?

Dicono di sì. Io le vedo cambiate (le allieve [n.d.r.]). Quello che vedo, anche nei weekend intensivi è che tutti ne vogliono ancora. In questi anni complicati, CreaVità è davvero la mia luce.

I cambiamenti sono due: uno all’insegna del rapporto con loro stessi e l’altro in relazione a quello che si è creato fra loro. Si adorano. È un gruppo di persone solidali. Si è creata intimità.

Questo piccolo mondo che tu hai creato è una riproduzione in miniatura della società, con l’intento di migliorarla?

Secondo me sì. Paradossalmente chi viene qui non ne aveva bisogno. Mi spiego: venendo qui hai la percezione che nella società qualcosa ti manca. Le persone che mi spaventano sono quelle che non si accorgono di quanto stiamo male, che non si accorgono che la vita non comincia e finisce sugli smartphone, quelli che hanno perso il contatto (o non l’hanno mai avuto), che non sanno che un’altra vita è possibile. 

Quindi dovremmo creare un’educazione alla consapevolezza?

Sì, certo. E ti dirò, sono molto triste. Ho fatto visita in una scuola e ho dato un esercizio ai ragazzi: chiudere gli occhi per cinque minuti e contattare quello che ci fa bene e quello che ci fa male. La maggior parte di loro ha spiegato che non sentiva niente. Uno in particolare ha detto che per lui andava bene così, perché non voleva stare male. E io ho replicato sottolineando che non stava nemmeno bene. E lui mi ha risposto che aveva chiuso con la felicità a 16 anni: «magari vivrò di soddisfazioni».
Io non mi rassegno. Non c’è altra soluzione se non l’incontro di noi stessi con l’altro.

Chi era Chiara Gamberale prima di CreaVità e com’è cambiata dopo CreaVità?

Di sicuro io sono abbastanza la stessa da quando sono bambina: sempre alla ricerca. Però, prima di CreaVità ero un po’ triste, sola e disincantata. Questo spazio mi sta regalando tanta commozione che se n’era andata un po’ dalla mia vita. Commozione, proprio nel senso etimologico del termine: mi com-muovo, vengo da te.

[n.d.r.]

Non poteva finire così. Da manuale, le interviste prevedono un’introduzione e uno scambio di battute, ma era beninteso dall’inizio che questa sarebbe stata una conversazione riflessiva. Ed è giusto chiudere con un invito, quello a meditare sull’evoluzione della società odierna e delle sue dinamiche, impoverite di emozioni e caricate di illusioni. Lo facciamo per noi, lo facciamo per chi è arrivato fin qui, ha letto, si è «com-mosso», ha preso consapevolezza di quello che ha intorno e ciò  che si è perso. Senza scordare che siamo fatti in primis di corpi, e i corpi hanno la necessità di muoversi, liberarsi, essere lasciati andare. Pensateci. Pensatevi.

«Il nostro corpo offre infinite possibilità creative, quando è lasciato libero di esprimersi… E se la mente spesso mente, lui non mente mai» (tratto dal sito di CreaVità).

 

A cura di Antonella Dilorenzo

Antonella Dilorenzo

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