Il racconto della domenica: Invictus maneo di Gianluigi Bodi

 Il racconto della domenica: Invictus maneo di Gianluigi Bodi

Illustrazione di Francesca Galli

C’erano le scritte con l’UniPosca nero: Take That, Five, ’N Sync o qualsiasi altro gruppo andasse di moda.

C’erano le spille dei gruppi rock: i Guns N’ Roses e i Metallica, spille che poi erano diventate grunge con i Nirvana e i Pearl Jam e che, diceva lui, mostravano quello che c’era sotto la superficie.

C’erano gli strappi, dichiarazione di un modo spericolato di guidare il motorino.

C’erano le parti consumate sul fondo, dove la stoffa verde svelava l’imbottitura bianca che con il tempo sarebbe diventata prima gialla e poi di un marrone mela marcia.

C’erano nomi di amici e un nome scritto da una mano femminile, quello di una ragazza che aveva significato tanto per lui e che, si vedeva, significava ancora molto.

C’erano i chilometri che aveva fatto, che non si potevano vedere, ma a cui lui teneva come si tiene a qualcosa che potrebbe fare curriculum e aprirti le porte della vita; lo prestava ai suoi amici quando se ne partivano per le ferie. Era stato in Grecia, in Norvegia, in Danimarca e perfino in India e ogni volta lo zaino tornava con qualche segno nuovo, con un profumo diverso che lui annusava perché gli sembrava che in questo modo, dove era stato il suo Invicta c’era stato anche lui.

Io l’ho conosciuto nella fila per il vaccino contro la meningite. Era dietro di me, l’avevo notato perché non la smetteva di muoversi. Spostava il peso da una gamba all’altra, come se dovesse correre subito al bagno ma avesse paura di perdere il posto. Non mi ero voltato perché non volevo essere riconosciuto.

«Ué, italiano!»

Mi disse che l’aveva capito dalla giacca in jeans e dall’inconfondibile profumo denim. Smisi con entrambi.

Fu lì che vidi l’Invicta per la prima volta: giaceva ai suoi piedi e, quando la fila si spostava di qualche centimetro, lui lo accompagnava avanti con un calcetto. Era pieno.

«Cos’hai lì dentro?»

«La mia vita!» Mi rispose con un sorriso pieno d’entusiasmo.

Gli avevano perso la valigia, spedita a Berlino o a Colonia, non lo aveva capito, ma gli avevano assicurato che l’indomani l’avrebbe riavuta. Nello zaino c’era tutto quello che possedeva: un beauty messo dentro all’ultimo momento e un po’ di cose di prima necessità che era riuscito a comprare quella mattina.

«Stanotte dormirò in mutande.» E si mise a ridere talmente forte, con un verso che mi ricordò le iene poco prima di attaccare una preda, che le infermiere si fermarono con la siringa a mezz’aria per capire chi avesse emesso quel suono bizzarro.

«Posso prestarti una maglietta.»

«Non fa così freddo.» E ce la fece, ma la valigia gli venne restituita dopo una settimana e non credo di sbagliarmi se dico che durante quei giorni il suo interesse principale non fosse diretto verso l’acquisto di biancheria pulita.

Me li ritrovai addosso fin da subito, lui e il suo zaino. Nel bar della Students’ Union sapevo che avrei visto spuntare un braccio alzato pronto a chiamarmi al tavolino e alla base di quel braccio lui, con la tazza in polistirolo riempita fino all’orlo, il muffin ai frutti di bosco mezzo mangiato e un libro stropicciato pieno di sottolineature. Era lì per fare due esami di architettura diceva, ma gli ho visto leggere solo romanzi. Quello era il suo posto nel mondo e se ne accorsero anche gli altri studenti. Attorno a lui si agglomerò un gruppo di studenti che trovavano piacevole la sua compagnia e che, appena gli impegni universitari mollavano la presa, si trovavano a fare quattro chiacchiere al suo tavolino. I gruppi non erano mai gli stessi, cambiavano come se il flusso che ogni giorno entrava dalla porta di ingresso depositasse sempre un nuovo naufrago. Restavano per un po’ a quel tavolino, poi venivano rapiti da uno stimolo nuovo e scomparivano; li incrociavo per i corridoi dei dipartimenti, un saluto, due parole, finivamo sempre per parlare di lui, per chiederci come stesse.

Se non era seduto a quel tavolino, l’unico altro posto in cui sapevo di poterlo trovare di giorno era il lago. Il campus ne aveva uno artificiale, circondato da una fitta vegetazione e ogni tanto, dai cespugli, spuntavano delle lepri che attraversavano saltellando il prato. Lui era lì, a volte seduto su una panchina, il filo delle cuffie che spuntava dalla tasca superiore dello zaino che ormai non poteva più chiudere perché la cerniera si era rotta, le ginocchia al petto. Se gli chiedevo cosa stesse facendo, mi diceva che osservava i pesci saltar fuori dall’acqua ma, a parte qualche anatra e degli uccelli di cui non conoscevo il nome, non avevo mai visto un pesce da quelle parti. Altre volte lo trovavo appoggiato alla sponda del ponte che divideva in due il lago; sbriciolava pezzi di pane per le anatre che litigavano per ogni boccone e lui sembrava soddisfatto di ciò che vedeva.

La sera tornava alla Union perché toglievano i tavolini; al posto dei caffè spuntavano le birre e al posto dei muffin le patatine ricoperte di formaggio.

Le sale si facevano più buie, il deejay sparava la musica a un volume talmente alto che le impalcature sul soffitto montate per tenere le luci strobo sembravano poter venire giù da un momento all’altro. E poi c’era l’odore di sudore, la condensa sui vetri. Lui passava da una sala all’altra, annusava l’aria in cerca di una preda, qualcuno con cui parlare.

Un giorno gli chiesi quanti anni avesse. Mi era sorta la curiosità perché avevo visto qualche capello bianco spuntare qua e là.

«Nella mia famiglia imbianchiamo presto.» Annuì sconsolato. Nella mia si diventa calvi presto, pensai. «E comunque ho più anni di quelli che dimostro e meno anni di quelli che vorrei avere.» Si sbatteva i pugni sul petto come fanno i gorilla, apriva la bocca come se volesse urlare, ma non lo faceva, poi si fermava, mi appoggiava una mano sulla spalla, con le dita produceva una leggera pressione, come se volesse capire se fossi davvero lì con lui e poi pronunciava sempre le stesse parole: «Sono invincibile, io».

In quei momenti gli credevo.

Lo vidi quasi tutti i giorni durante quell’anno accademico, l’unico modo per non vederlo era non uscire dallo studentato. Poi iniziai a rendermi conto che i mesi a mia disposizione erano quasi finiti; che con l’estate me ne sarei dovuto ritornare a casa, avrei ripreso il lavoro stagionale in campeggio e poi sarebbe ricominciato un altro anno d’università. Avevo chiesto in giro cosa avrei dovuto fare per continuare a studiare a Reading, ma mi rendevo conto che si trattava solo di un modo per credere che ciò che stavo vivendo non si sarebbe interrotto bruscamente lasciandomi qualche ferita che magari, o magari no, il tempo avrebbe curato.

Quando mancavano un paio di settimane alla fine dei corsi, lo vidi sbucare da dietro gli alberi attorno al lago.

«Hai dato da mangiare alle anatre anche oggi?»

Aveva uno sguardo vuoto, sembrava che stesse stringendo le maniglie dello zaino con forza, come se avesse paura di perderlo, le nocche erano bianchicce.

«Ho pisciato.»

«Se ti beccano le guardie?»

«Sono invincibile, io.»

Risi; era diventato il suo tormentone.

Non lo vidi più. Lo cercai nei giorni successivi. Il tavolo alla Union era sempre pieno, ma lui non c’era e anche le persone sedute non avevano a che fare con quel gruppo multiforme che aveva creato nei mesi. Andai al lago, convinto di vederlo lì, ma né sulla panchina, né sul ponte c’erano tracce di lui.

Pensai che se n’era andato e che non mi aveva salutato. Era ritornato a casa sua e non lo avrei più rivisto.

Due giorni prima di ripartire per l’Italia bussarono alla porta della mia stanza. Sul letto avevo la valigia aperta, stavo buttando dentro le ultime cose. Aprii, il portinaio diede un’occhiata alle mie spalle, la stanza sembrava essere stata messa a soqquadro dall’onda d’urto di un’esplosione. Riportò gli occhi su di me, mi disse che c’era qualcuno che voleva vedermi. Mi incamminai seguendolo e appena uscito dal corridoio vidi sul pavimento lo zaino verde e arancione, flaccido e semivuoto come non l’avevo mai visto. Pensai che fosse venuto a salutarmi, ma mi sbagliavo.

Il poliziotto mi disse che avevano rinvenuto il suo corpo sulla riva del lago, nel lato più nascosto del campus. Poco distante c’era lo zaino e quando lo avevano aperto avevano trovato un messaggio scritto in italiano e inglese; voleva che lo avessi io.

Ringraziai e tornai in camera, svuotai il contenuto dello zaino sulla scrivania e mi sedetti. C’erano alcune foto che ci avevano scattato i primi giorni al campus, un astuccio con delle matite e delle penne, un tascabile Penguin delle avventure di Robinson Crusoe che gli avevo visto comprare al mercatino della Students’ Union per 50p e c’era un diario e tutto ruotava attorno a quel diario.

Non era uno studente, non lo era più da anni, e aveva ragione: dimostrava meno anni di quelli che aveva e ne aveva più di quelli che avrebbe voluto. C’era una storia scritta in quel diario, era come lui avesse deciso di riprendere dall’ultimo punto in cui era stato felice. Si era diplomato, aveva lavorato nell’officina del padre e si era sposato con una compagna di classe poco dopo la fine della scuola. Poi era nato Matteo e con lui era arrivata la consapevolezza che non ci fosse presente migliore di quello che stava vivendo. Fino a che era scesa la neve e la gente di pianura non sa mai come prenderla la neve; Matteo l’aveva trovata una meraviglia, sua moglie l’aveva trovata talmente infida da finire fuori strada con la macchina e morire sul colpo assieme al figlio.

Adesso non c’era più nessuno che abitasse quel presente e lui aveva deciso che non si poteva tornare indietro al bivio per scegliere un’altra strada.

Lo zaino è messo male ora, le parti consumate si sono estese; l’imbottitura, in alcuni punti, reclama libertà e credo che prima o dopo l’otterrà. L’ho portato con me ogni volta che ho potuto. Ha visto Stoccolma, Barcellona, Bucarest; l’ho prestato agli amici perché so che lui avrebbe voluto così. Ho cercato di mantenerlo come me l’ha lasciato.

Ho solo scritto il suo nome in piccole lettere d’oro.

Gianluigi Bodi

 

Blam

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