Il racconto della domenica: Bosoni come virgole di Michele Frisia

 Il racconto della domenica: Bosoni come virgole di Michele Frisia

Valzer cieco: illustrazione di Julien Bertolin

Tutto cominciò con la telefonata del mio agente.

Einaudi non è interessata, disse lui. Dammi retta, almeno una volta, e te la trovo io una casa editrice, qualcosa di piccolo che.

Adelphi. Hai provato con Adelphi?

Te l’ho già detto, da Adelphi non vado.

Sbuffai. Era stato difficile trovare un agente. A dire il vero, lui era l’unico che mi avesse risposto ed era davvero una brava persona, ma così limitata.

Dammi retta, continuò, e scrivi qualcosa di vendibile, almeno per l’esordio. C’è tanta narrativa buona anche sotto le mille pagine, e vende perché i lettori la capiscono. Libri che usano quelle cose, hai presente?, i personaggi, la trama, la.

La merda! Io non scrivo la merda e non la scriverò mai.

Antuono, ascoltami bene, tu non sei Joyce, non sei Musil, non sei nemmeno Cărtărescu. Tu sei Antuono Liborico e, scusa se te lo dico, ma il nome non aiuta.

Certo che non sono Cărtărescu, quello è rumeno!

Antuono, il tuo lavoro non è male. Ma anche se ti pubblicano, quanto pensi di vendere? Il mercato lo conosci, cinquecento copie sarebbero un successo, duemila un miracolo. Servirebbe qualche buona recensione.

Stai scherzando? Il minimo è trecentomila, non una di meno. Io ho scritto per.

Antuono, non voglio che tu viva di illusioni: non sei il capitano di una squadra di calcio e non presenti una trasmissione della fascia serale. Vuoi fare i grandi numeri? Non puoi, semplicemente perché non ti conosce nessuno.

E il mio agente, su questo, aveva ragione; ma possedeva una visione così limitata. Perché a pensarci bene, se Musil non era capace di usare la punteggiatura, e se la Woolf pensava che Joyce fosse sopravvalutato – per me aveva ragione, ma lei cos’è stata, se non iper-valutata? – forse era il momento di scrivere finalmente qualcosa di bello. Ci sarebbe il Sebald di Austerlitz – mi aveva quasi convinto – poi sono cresciuto e comunque sono stanco degli incompetenti che magnificano Infinite Jest o Arbasino. Lui ancora non capiva che io, nonostante questa desolazione artistica ormai centenaria, avevo trovato la via, avevo scritto qualcosa che finalmente spiccava rispetto a quelle robette altezzose. Il mio era un libro diverso e nuovo e bello, come può esserlo solo ciò che il bello non insegue.

Però, dai patetici tentativi dei miei colleghi, avevo colto uno spunto: anche il mio libro, come i loro, sarebbe stato esposto nei salotti, a beneficio degli amici aspiranti sceneggiatori o aspiranti poeti, aspiranti in generale, non sarebbe stato un flusso di parole ma un oggetto di design, un manufatto di cultura elevato a manufatto d’arredamento; e non roba stereotipata come Moby Dick o Knausgård, io parlo di qualcosa di molto più grande perfino più del Tristram Shandy e di Proust: tutti avrebbero dovuto possederlo, anche senza leggerlo, e per questo la casa editrice era fondamentale. Se l’avessi affidato a dilettanti quelli avrebbero ucciso il mio capolavoro con un carattere tipografico di quart’ordine, margini improvvisati, o una copertina senza senso, zeppa di colori o peggio ancora corredata da una fotografia, una fotografia ci rendiamo conto? Roba che avrebbe svilito per sempre il più grande libro mai scritto sul tema della morte che è, come tutti sappiamo, il vero grande unico tema di cui trattano gli scrittori seri. Ma torniamo alla telefonata.

Antuono, disse il mio agente, ascoltami e fammi un favore; scrivi su un pezzo di carta: Io non sono Pynchon; appendi questa frase dove la puoi vedere bene; leggila spesso; e io nel frattempo ti cerco un editore.

Non avevo bisogno di scrivere ciò che già sapevo – Pynchon non capisce nulla di meccanica quantistica – ma pochi istanti dopo, appena conclusa la chiamata, come accade per le grandi idee – che nascono infatti solo quando il cervello è distratto – pochi istanti, dicevo, e arrivò l’idea esatta.

Il primo passo: documentarmi. Raggiunsi la biblioteca e mi spinsi fino alla sala grande, quella che frequentavo poco. Universitarie in gran numero e qualcuna era pure carina: una di queste, forse la migliore, stava leggendo a pochi passi da me. La notai mentre sbirciava i libri che avevo preso dagli scaffali. Li conosceva, era evidente, e sorrise – pensava forse che fossimo colleghi di studio – per cui mi alzai e la raggiunsi.

Ti sei fatta un’idea sbagliata, dissi, mi sto solo documentando. L’università è un luogo banale, la giurisprudenza una noia; io invece sono uno scrittore.

Come ti chiami?, domandò incuriosita.

Antuono Liborico.

Lei scoppiò a ridere e io tornai al mio posto.

Quando si vuole scrivere fin da piccoli, quando si vive di carta e parole, quando lo sguardo è chirurgico nello scovare i passaggi fra il mondo e la sua essenza, allora può capitare che sia difficile farsi capire dal prossimo. E questo – la lontananza e l’incomprensione dall’altro – può sembrare un ossimoro perché scrivere spesso equivale a scrivere di persone – che poi diventano personaggi – e come si può scrivere di personaggi e di persone se non si entra in connessione con gli altri? E invece è tutto sbagliato, non è così, la scrittura vera non parla dei vivi, ma solo della morte, e se anche Moresco ci ha provato, se ci ha provato anche Bolaño – in molti ci hanno provato e di solito sbagliano la punteggiatura – alla fine solo io avevo raggiunto l’obiettivo, capite?, solo io, ed ero costretto ad assistere ai più sordidi rifiuti delle poche case editrici che ritenevo degne di produrre il mio oggetto, l’icona che avrebbe accompagnato le cene e gli aperitivi di un’intera generazione, che avrebbe arredato le case più importanti del paese, solo perché non ero abbastanza famoso.

Risolto con la teoria, mi buttai sulla seconda fase, ovvero vincere la paura. E non parlo dei sensi di colpa, convivere con le proprie azioni o altre sciocchezze post-religiose che affollano i pomeriggi televisivi. No! Io percepivo intensa la paura per quello che mi avrebbero fatto poi – quella cosa lì insomma, non tanto bella – ma, dopo una settimana di riflessione, capii che sarebbe stato un rito di passaggio, qualcosa che mi avrebbe anche arricchito, a voler vedere, e il dolore l’avrei sopportato. A quel tempo, devo dire, non potevo sapere che nessuno mi avrebbe toccato e che proprio la mia arte invece mi avrebbe protetto. Una coincidenza? Forse il caso? Direi piuttosto un segnale del fato.

Superato anche quel limite, non restava che attrezzarmi. Raggiunsi un ferramenta – a piedi, perché avere la patente è volgare – e presi tutto il necessario. Non ho mai ammesso in pubblico di leggere il genere, nessun genere, e potrei esporre il motivo per cui non leggo libri di genere da innumerevoli angolazioni e a un livello di approfondimento tarato in modo esatto sulla specifica “cultura” del mio interlocutore. Questa è la teoria. Ma il genere lo leggevo, e anche parecchio! Non certo per svago, che ingenuità, e nemmeno, come potrebbe ipotizzare qualche malpensante, per rubare idee, sottrarre in maniera viscida e fraudolenta i meccanismi dei romanzi rosa, della fantascienza, dei gialli storici, le idee di narratori che, sebbene non portati per la lingua e incapaci di riconoscere l’esattezza della parola, si atteggiano comunque a fucinatori di storie vomitevoli ma avvincenti. Sbagliato! Li leggevo solo per evitare di inserire fra le mie pagine cristalline anche solo un grano di quello schifo, un grano di cristallo malvagio capace però di contaminare tutta la mia opera. Ma leggendo comunque il genere ero in grado di sapere, con la stessa esattezza con la quale conosco le mie parole, tutto ciò che mi sarebbe servito in quella particolare occasione.

Trovai l’obiettivo in poche ore. I dettagli non erano importanti, l’importante era vedere il mio nome scritto correttamente sui giornali, Antuono Liborico, e così infatti è accaduto. L’hanno pronunciato a dovere perfino nelle trasmissioni televisive.

A quel tempo non potevo sapere quanto avrei venduto, per cui non volevo investire troppo in quel progetto: puntavo a una sentenza inferiore ai vent’anni cosicché, fra le attenuanti generiche e la buona condotta, avrei fruito della semilibertà in otto, nove anni al massimo. È andata perfino meglio. E in carcere, al contrario delle mie previsioni, non mi hanno violentato, mi hanno solo obbligato a scrivere centinaia di lettere d’amore alle fidanzate e mogli e amichetti dei miei compagni di raggio. Erano tutti maledettamente ansiosi di usare la mia scrittura per i loro sordidi fini, che schifo! Comunque, per confezionare quelle banali lettere, i romanzetti di genere che avevo frequentato di nascosto mi sono tornati utili; ma almeno l’amore è senza trama, si sa, e questa è una bella liberazione. Me la sono passata male soltanto una volta quando, inseguendo una meravigliosa intuizione, ho provato a destrutturare il concetto stesso di lettera. L’ergastolano che aveva ricevuto il dono impalpabile di una missiva che – ritenevo – avrebbe cambiato per sempre il senso stesso dell’amore, e soprattutto quello di lettera, non fidandosi dell’ultimo arrivato se l’era fatta leggere dal compagno di cella. È tornato da me con un punteruolo di pessima fattura, me l’ha puntato al collo, e così io ho dovuto revisionare la mia opera – ci ho messo le solite banalità che piacciono tanto agli ergastolani – e sebbene lui spesso sbagli ancora il mio nome, Antonio dice, io non gli ho mai fatto pesare la cosa e non abbiamo più avuto screzi.

Da domani starò in albergo, come dicono le guardie. Per qualche anno uscirò la mattina e la notte soltanto dovrò ritirarmi in carcere. Così sarò libero di partecipare alle conferenze e alle presentazioni, che saranno moltissime perché, ora ne sono certo, troverò una casa editrice adatta. Le vendite andranno alle stelle e il libro avrà successo anche all’estero perché, sebbene io l’abbia concepito come intraducibile, vorranno provarci lo stesso.

Scusate, mi viene da ridere: ho detto una menzogna! Non ho mai avuto dubbi, sapevo benissimo che avrei venduto tanto, venderò tanto, ne sono certo. Ricordo benissimo che, quando ancora la polizia non era arrivata e io, al telefono col mio agente, gli spiegavo come avrebbe dovuto muoversi per la pubblicazione – e lui pensava che scherzassi – in quel momento la visione di ciò che sarebbe accaduto era lucida, sapevo in modo preciso quanto il mio nome sarebbe diventato notorio, quanto finalmente le persone, anche le ragazze, sentendo il mio nome, Antuono Liborico, lo scrittore, avrebbero reagito con ammirazione. Fu proprio durante quella telefonata che il titolo – il titolo è importante – spuntò dal mio cervello distratto. E io non sono come gli altri, io trovo solo parole esatte, per cui anche il titolo era esatto:

Bosoni come ,,

 

Michele Frisia

Blam

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