“Vera”, una storia di Veronica Nucci. Cosa può succedere in una normale giornata “lavorativa”?

 “Vera”, una storia di Veronica Nucci. Cosa può succedere in una normale giornata “lavorativa”?

Illustrazione di Francesco Ferraro

Tum tum tum.

La sveglia, puntuale come ogni giorno, la fa sobbalzare e il cuore parte all’impazzata. Due secondi e Vera è attiva. O meglio, cosciente. Purtroppo. Nessuno dorme accanto a lei, i vestiti sporchi sono sparsi per la stanza, c’è odore di polvere e di chiuso. Scende dal letto e va a farsi un caffè: unico piacere della giornata. Se la prende comoda sotto la doccia, ma non è una buona idea. In quel momento, infatti, i pensieri prendono il sopravvento e si incarnano in nuvole di vapore: un’altra giornata lavorativa da affrontare.

Si è laureata un paio di anni fa e, ingenuamente, credeva di poter migliorare il suo status sociale. Figlia di operai, aveva avuto la possibilità di studiare. In quegli anni si credeva ancora che con un “pezzo di carta” in mano si potesse fare qualcosa di buono nella vita. Poi sono arrivate le delusioni, ogni sei mesi un lavoro diverso, la ricrescita ai capelli, paghe basse e affitti alle stelle. Nessuna soddisfazione.

Per lavoro si occupa di questioni con l’estero. Parla tre lingue, ma sottostà agli ordini di una raccomandata con la terza media che raramente azzecca un congiuntivo. A lavoro deve limitarsi a fare quello che le dicono, senza troppe domande e a testa bassa. Lo fa anche quel giorno, mentre le altre chiacchierano allegramente e lei ha i pensieri altrove: aspetta la risposta di rinnovo contratto, che pare essere arrivata proprio in quel momento. La segretaria la invita a presentarsi nell’ufficio del direttore.
Si liscia la felpa lisa – un tempo blu – , abbassa lo sguardo verso i jeans sbiaditi e pensa che hanno bisogno di riparazioni. Immagina il suo viso e cerca di ricordarselo com’era la mattina appena uscita di casa: niente rossetto sulle labbra screpolate, ma un vecchio Labello scaduto. Si schiarisce la gola e bussa alla porta.

Il direttore la fa accomandare e, senza troppi giri di parole, le comunica il responso: non c’è più bisogno di lei. Il contratto termina lì, quel giorno. Le hanno chiesto di dedicare tutta la vita a quel lavoro, ma le fanno capire che possono anche fare a meno di lei, per far spazio a un’altra, forse più giovane, forse meno pagata. Un’altra, obbligata a crederci con la sua stessa forza ma solo per un tempo breve, determinato? E per avere cosa in cambio? Forse niente. La testa comincia a girarle, lui continua a parlare, lei non sente più.

Si alza e se ne va.

Sono mesi che il mal di stomaco non la abbandona, c’è una punta di sollievo in quella fine, ma è sicura che domani un nuovo mal di stomaco arriverà. Diverso: quello di chi deve rimettere a posto i cocci all’infinito e credere di nuovo in qualcosa per un tempo limitato. Afferra la sua borsa in finta pelle e percorre a passo svelto il corridoio spoglio senza voltarsi.

Credere in qualcosa oggi è difficile. È una situazione destinata a ripetersi e che non sappiamo come gestire perché non abbiamo punti di riferimento.

Vera torna a casa e si mette a scrivere. Parole di denuncia contro la società, il mondo del lavoro, contro false speranze che generano vere frustrazioni, contro politiche che non rispecchiano più gli interessi delle nuove generazioni. Vomita parole, Vera, che rimarranno nel suo pc e forse nelle teste di altri che, come lei, sognano una ricchezza diversa e rifuggono come possono questa nuova schiavitù.

Veronica Nucci

Blam

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