È il luogo che stabilisce il significato dell’amore: «Amore e altre cose di cui parlare» è il racconto di Emanuele Muscolino

 È il luogo che stabilisce il significato dell’amore: «Amore e altre cose di cui parlare» è il racconto di Emanuele Muscolino

Illustrazione di Francesca Vitolo

Il capofamiglia si arrampica svelto come una rana riparia lungo il fusto della palma – i lembi dei bicipiti e dei polpacci allungati e ben saldi sulle ossa sporgenti. In testa il turbante arancione; legato tra le mani e teso attorno al tronco, uno straccio che gli permette di far leva e di issarsi con i piedi nudi un metro più in alto a ogni strattone. Giunto in cima e ancoratosi al ramo più prossimo, l’uomo stacca con un falcetto la prima noce di cocco – quella precipita e, tunf!, colpisce il terreno. Si sporge e ne afferra una seconda, poi una terza, che lascia cadere; incastra il falcetto nel mutandone bianco e torna giù servendosi dello stesso straccio usato per salire. I nipoti accorrono ai piedi della palma pronti a raccogliere le noci verdigrandi quanto le loro teste.

All’ombra boschiva, oltre ai nativi, ci siamo noi, un crocchio di occidentali mal vestiti (cineoperatori, suore cattoliche, piccoli imprenditori) in pausa dal lavoro. Sotto gli alberi l’umidità è più dolce, non fa sudare. Rifiuto con imbarazzo la noce scoperchiata dal falcetto ricamato di terra e ruggine che il capofamiglia, con le sue dita larghe e consumate, mi porge dopo averla sottratta alla brama dei nipoti. Più che mandare all’aria il rito, mi preoccupa l’assalto delle zanzare che abitano questa palude. Per questo indosso pantaloni di cotone bianco che mi coprono fino alle caviglie e scarpe da trekking. Peppe, accanto a me, si è reso più presentabile: ha optato per pantaloni corti e sandali, l’opposto di quanto prescritto dal vademecum anti-malaria che ci è stato consegnato. Lui la noce la accetta, beve un po’ di succo e lascia il resto ai bambini, che se la contendono come un trofeo. Mi vuole bene – accontenta ogni mia proposta, e oltre a occuparsi della logistica si carica il cavalletto su per i clivi e fin dentro le risaie – ma comincia a non sopportarmi: la notte lo faccio dormire con il ventilatore spento e le finestre chiuse. Dice che così morirà di caldo. Come le batterie della videocamera e dei cellulari che, sottoposte a voltaggio straniero e imbizzarrite dall’umidità, friggono e si caricano a rallentatore. La notte sarà bagnata come le altre. Le docce: inutili. Asciugarsi è impossibile. Abbiamo ancora dieci giorni di riprese in Kerala.

Siamo venuti a rimorchio di una nota cantante, in viaggio come testimonial per delle iniziative benefiche che hanno fatto e continuano a fare la fortuna di imprenditori italiani emigrati in India in cerca di manodopera a basso costo. La chiamano solidarietà. Ma terminata la settimana di lavoro abbiamo spostato il volo e ce ne siamo andati in giro a cercare risposte a qualche domanda sorta nel frattempo.

I ragazzi che intervistiamo nei negozietti bui, ricoperti di zaini e stoffe, o negli internet point, o in lavanderie coi neon intermittenti, ci ascoltano incerti mentre dondolano con il capo. Staranno capendo cosa dice il traduttore?

«Farai un matrimonio combinato o d’amore? Preferisci essere libero o dare retta ai tuoi?» gli chiediamo. Di che diavolo stanno parlando?, si devono essere chiesti. Perché, dite che si può davvero fare un matrimonio d’amore?

«Ma no, preferiamo alla vecchia maniera» rispondono.

«E perché? Perché non volete essere voi a decidere la persona con cui passerete il resto della vita?»

«Per la famiglia, per il rispetto della famiglia. Perché ci fidiamo dei nostri genitori.»

Ci pensano su – altre volte siamo noi che li incalziamo – e la riposta cambia:

«Noi vorremmo un matrimonio d’amore, ma chi ce li dà i soldi per vivere, poi? Non avremmo il supporto della famiglia».

Si staranno domandando su che schermo o canale andranno a finire la loro voce e quel simulacro così incerto che è il loro volto, lo sguardo ingenuo, impreparato al nuovo mondo entrato fino in casa, in una zona rurale e sperduta che avrebbe dovuto tenerli al riparo. Sarà saggio rispondere? Forse no, ma come resistere alla meravigliosa possibilità di sfogo, a qualcuno che ti chiede di dire cosa pensi? Lo straniero può tanto inibire quanto stimolare le confessioni più intime. O magari dicono così soltanto per non deludere le aspettative.

Mentre ci inoltriamo tra le colline e ci allontaniamo dalla costa a sud di Kochi, dove giorni fa abbiamo fatto il bagno schiacciati da una caligine gialla insieme a una miriade di ragazzini vestiti da capo a piedi (con cui abbiamo improvvisato – ancora grondanti – una partita di calcio sulla spiaggia), attraversiamo interminabili e baluginanti piantagioni di tè, sotto un sole duro. Tra i fittissimi filari si muovono, come formiche colorate, le donne e gli uomini dediti alla raccolta, che decidiamo di disturbare. Le donne incrociano gli sguardi: una sorride imbarazzata, l’altra, più grande di età, continua seria e guardinga a raccogliere le foglie di tè.

«Questo lavoro è una schiavitù. Ore e ore a bruciarsi al sole per una paga miserevole. Ma non abbiamo alternativa.»

Come i lavoratori che qualche giorno fa spalavano il fango con le mani – nel fango immersi fino alle ginocchia – in un cantiere stradale.

Un vecchio dalla barba lunga e le unghie ritorte spacca pietre a bordo strada, a piedi nudi, con una mazza.

«Cosa sta facendo?»

«Lavoro.»

Ci spiega che appartiene a una casta di cavalieri, una delle più nobili. Ma le caste le hanno abolite sessant’anni fa. Ora si è tutti alla pari, a eccezione dei paria, che in molti continuano a considerare degli intoccabili, tanto quasi da non volerne pronunciare il nome.

«Fate domande sciocche» ci avvisa il traduttore mentre siamo a cena. «Qui le persone non sono abituate a pensare così.»

«Che intendi per “sciocche”?»

«Scomode.»

«È per questo che le facciamo.»

Si guarda con l’autista senza controbattere. Uno di questi giorni ci lasceranno a piedi.

Ho settato la camera in quattro terzi – il formato «quadrato» – e aumentato le ombre e il contrasto: voglio che l’intero quadro parli, ma senza abbellimenti. Se c’è qualcosa di sensato che porteremo via da questa terra, sarà grezzo come la iuta.

Il proprietario di una piantagione, grigio e spettrale in mezzo ai fiori cremisi e allo smeraldo vivo e appuntito che lo circonda, con dei gran ciuffi di pelo che gli emergono dalle orecchie, non sopporta i costumi occidentali, né l’ostentazione del corpo. Li trova indecenti. Anche con lui parliamo d’amore, anche per lui i matrimoni combinati sono l’unica via da seguire. Proviamo a chiedergli se ai suoi occhi l’attrazione di un uomo per una donna non mediata dagli affari familiari (non accenniamo all’omosessualità, che qui è reato) abbia diritto di esistere, ma lui riconduce tutto a una dimensione parentale, familiare, esistenziale.

«L’amore tra due persone, il desiderio, lo riconosce? Come lo considera?» insistiamo.

Che domanda stupida! Ha provato a evitarla con diplomazia, ma adesso gli tocca spiegarci come un catechista:

«L’amore è tutto uguale: quello tra padre e figlio, quello tra coniugi, quello tra fratelli. L’amore è uno solo».

Non ha altro da aggiungere. È un illuminato? O un reazionario? Intende che la natura dell’amore è unica o che per l’eros non ci dev’essere spazio, e che dunque l’amore coniugale è un obbligo che va iscritto nel bene familiare?

L’idea di un amore sopito, «cristiano», e non come guizzo libertario, si infrange violenta contro i nostri vent’anni. Sono loro, questi indiani del Sud e delle campagne, che vivono nel Medioevo, o siamo noi, europei di città, che abbiamo imboccato la strada sbagliata? Il nuovo millennio, già vecchio di sei anni, ci aspetta a casa.

Emanuele Muscolino

Blam

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