Andrea Cappuccini: intervista all’autore di Grande nave che affonda, romanzo di sogni infranti e possibilità inespresse

 Andrea Cappuccini: intervista all’autore di Grande nave che affonda, romanzo di sogni infranti e possibilità inespresse

Grande nave che affonda (Blu Atlantide, 2023) è l’opera prima di Andrea Cappuccini. Classe 1991, nella vita ha fatto un po’ di tutto, dal traslocatore al montatore di piscine; prima di questo esordio da romanziere aveva già pubblicato un racconto su «Altri Animali». In Grande nave che affonda dimostra un uso interessante della lingua parlata, costruisce personaggi vividi, custodi di inquietudini e speranze universali, e mostra di saper dare una dimensione narrativa alle emozioni. Lo abbiamo intervistato per voi. Buona lettura!

Intervista ad Andrea Cappuccini

Grande nave che affonda è il tuo primo romanzo: com’è stata la gestazione di questo esordio?

Sentivo di avere molte storie che non volevo lasciare andare, mi pareva che nel farlo avrei perso qualcosa di importantissimo. Non la storia in sé, ciò che è successo o come è andata a finire – tutte cose che si possono trattenere abbastanza facilmente –, ma le possibilità che racchiudeva. Infatti da una certa prospettiva in Grande nave che affonda non succede molto: ci sono delle persone intrappolate in un quartiere che non riconoscono più e per un anno aspettano un ragazzo che deve uscire di galera. Ma poi nessuno di loro resta davvero in attesa: c’è chi si perde nel proprio passato alla ricerca di qualche punto fermo, chi cerca rivalsa per sé o per ciò che ama, chi deve prendere in mano le redini della propria vita o chi più semplicemente cerca di non fare una brutta fine. Ogni evento è carico di possibilità straordinarie. Alla fine, per ognuno di loro, si tratta quasi di indagare su quale sia la segreta ragione che unisce tutti quei fatti, il ripetersi ancora e ancora del loro vivere ai margini di una promessa. E per me è stato lo stesso, scrivere questo romanzo è stato un po’ come chiedermi cosa di quelle storie mi fosse rimasto e cercare di restituire tutte le possibilità inespresse che contenevano.

Nella nota dell’autore affermi di voler dare alla lingua parlata «la dignità di una lingua che appartiene alle persone che la usano»: come nasce questa scelta? Soprattutto, quale rapporto pensi debba esserci tra lingua letteraria e lingua parlata?

Una lingua è innanzitutto un modo di pensare e plasmare la realtà. A un certo punto mi sono reso conto che io stavo pensando in questa lingua e i fatti di cui volevo scrivere erano nati e si erano sviluppati all’interno della sua tradizione orale. Il punto, però, è che il romano non ha dei criteri rigidi come altri dialetti e, in certe occasioni, sembra più che altro una tinta o una tonalità delle cose; alcune parole, alcuni modi di dire possono cambiare o anche sparire nel giro di pochi anni. Ho cercato perciò di esprimere un romano essenziale, senza troppi fronzoli o espressioni dialettali antiche, il più spontaneo possibile; e nel farlo ho cercato di renderlo anche autonomo dall’italiano, di non segnalare, ad esempio, il troncamento di una parola: perché quella parola in romano finisce lì e basta, non c’è una parte che è caduta. Insomma ho adottato una lingua che, anche se priva di una grammatica, appartiene a persone che la usano e vivono al suo interno, perché la impiegano per interpretare la realtà. E penso che la letteratura, più che della realtà oggettiva – esiste? –, si occupi di come noi aderiamo a essa, di come la interpretiamo e gli diamo forma.

Tu descrivi Roma come un nemico che ingloba le periferie: «era avanzata la città e aveva assediato Torricella cingendola e straziandola a distanza. Costringendola al doppio schifo di essere una non Roma isolata e a lato di Roma, e di essere Roma in una delle sue espressioni più schifose». Qual è il rapporto tra Torricella e Roma? Ha senso in un mondo globalizzato parlare ancora delle micro realtà come di luoghi che custodiscono le identità?

Penso sia inevitabile. Probabilmente anche in un ipotetico mondo futuro perfettamente omogeneo ci sarà chi, a ragione o a torto, rivendicherà di appartenere a un certo luogo, tradizione, gusto o semplice preferenza di abitudini. È così perché siamo umani e apparteniamo alle cose che amiamo. E poi il più delle volte l’ascesa di una cultura segna anche la sparizione di molte altre, e non è esito di un’adesione spontanea, c’è dietro uno scontro spesso molto violento e impietoso per gli sconfitti. Perciò credo che parlare di micro realtà e cercare di tenerle in vita o almeno di conservarne la memoria possa essere molto importante: ci aiuta a capire da dove veniamo e dove stiamo andando. E anche quando è solo un passato comune resta sempre parte della nostra identità. Ogni personaggio del romanzo ha un rapporto molto personale con il quartiere: la Torricella di Settimo – il nonno del ragazzo arrestato – è per certi aspetti molto diversa da quella di Camillo, il padre, o da quella del suo amico Diego; e questo è anche frutto del continuo rimpasto urbano. Ognuno di loro si trova, cioè, a dover anche fare i conti con la realtà circostante in un momento in cui qualcosa di molto importante gli è stato tolto e tutto è sprofondato in un limbo; qualcosa nella loro vita e nel quartiere sta cambiando e loro, muovendosi a tentoni, cercano di riconoscere ciò che gli è familiare. Cosa resta della Torricella sperduta tra i prati oltre Roma o della Torricella borgata di Camillo in quella attuale? E cosa dei giri di Diego e Taddeo ora che tutto e tutti sembrano sparire? Nel rapporto tra Torricella e Roma c’è tutto questo: Torricella non esiste sulle cartine ma la sua è la parabola di molti quartieri romani.

Ciò che più di tutto emerge dalla lettura è una consapevolezza nitida del tempo che scorre quando si è costantemente in attesa che qualcosa di straordinario accada. Credi che questa sospensione sia la cifra di un’epoca, di una generazione o che appartenga alla vita in generale?

Sicuramente è un tema familiare alla mia generazione: chi è nato nelle ultime decadi del secolo scorso è cresciuto tra molte promesse di abbondanza e realizzazione, c’era un orizzonte diverso, la nostra parte di mondo pareva impegnata in una corsa inarrestabile e tutto voleva convincerti che saresti potuto arrivare dove volevi. Ovviamente poi non è stato così, erano promesse abbastanza truffaldine fin dall’inizio, e ora ci ritroviamo più che altro a raccogliere i cocci rotti di quei sogni; sappiamo che tutto è più incerto e che molto spesso quella corsa non ci ha portato a niente. Credo però che il rapporto tra il tempo che passa e il naufragare del proprio mondo personale sia qualcosa con cui tutti fanno i conti da sempre, andiamo avanti per la nostra strada inseguendo qualcosa e man mano perdiamo pezzi. Da questo punto di vista, portare con sé una storia o un ricordo è un modo per tenere in vita quei pezzi persi nella nebbia: sopravvivono in noi e scriverne è quasi un modo per prendersi una piccola rivincita sull’inevitabile naufragare delle cose. Anche i personaggi di Torricella cercano questa rivalsa in fondo, Diego inseguendo Antonella, l’unica che gli sembra depositaria di un passato simile al suo, e vivendo un amore che tiene in vita tutte le cose perdute; o Settimo provando a disfare i lavori nella piazza di Torricella. In entrambi i casi ci si rende conto che alla fine queste cose verranno comunque inghiottite dal tempo, ma qualcosa resterà lo stesso, qualcosa di sottile, di inesplicabile.

Per te la scrittura – e, più in generale, la letteratura – aiuta a trovare quel «filo comune» che lega le storie e ordina il disordine della realtà?

Non so se aiuta proprio a trovarlo, ma mi sembra un buon modo per farsi delle domande al riguardo. Non credo cioè che scrivere ci aiuti a digerire e risolvere la realtà, che possa darci delle risposte definitive e logiche, penso piuttosto che metta in luce una continuità e ci offra delle buone tracce da seguire. In questo per me scrivere è come sognare, e l’interpretazione di un sogno è sempre qualcosa che facciamo dopo e che, nel migliore dei casi, offre risposte solo parziali. Io, per esempio, quando finisco di leggere un libro che mi è piaciuto e mi ha detto molto non riesco a parlarne, non so spiegarne bene il valore. Eppure lo conosco, so che quel valore lo sento e che sotto la superficie della mia ragione mi tocca profondamente. Ho difficoltà a parlare anche del mio libro, ma in questo caso forse è solo una mia timidezza.

Hai in mente o stai già scrivendo il tuo prossimo libro? Se sì, puoi parlarcene?

Sto scrivendo molto ma credo di non aver ancora messo bene a fuoco il progetto, perciò preferisco aspettare un altro po’ prima di parlarne. Mi sembra però che ci sia una certa continuità con alcuni elementi di Grande nave che affonda, elementi che vorrei approfondire da altre prospettive. Uno di questi è sicuramente il nostro rapporto con il tempo e questa volta vorrei avere un occhio meno rivolto al passato.

 

A cura di Vincenza Lucà

Blam

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