Tutto chiede salvezza: il libro di Daniele Mencarelli. Recensione

 Tutto chiede salvezza: il libro di Daniele Mencarelli. Recensione

“Eccola la mia ossessione, il mio desiderio patologico.
Salvezza.
Dalla morte, dal dolore.
Salvezza per tutti i miei amori.
Salvezza per il mondo.”

È lunga la lista di capolavori che hanno messo al centro il racconto della malattia mentale, una decennale tradizione che potrebbe rischiare di schiacciare sotto il suo peso qualsiasi nuova narrazione. Non è questo il caso dell’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, pubblicato da Mondadori e candidato al Premio Strega 2020.

Tutto chiede salvezza: la trama del libro di Daniele Mencarelli

Grazie a una scrittura personale, sentita e fortemente caratterizzata, l’autore ci accompagna in un viaggio che dura sette giorni, quelli imposti dalla legge per un trattamento sanitario obbligatorio. Una reclusione coatta in un ospedale della provincia laziale nella torrida estate del 1994, quella dei Mondiali di Roberto Baggio e Arrigo Sacchi: è qui che Daniele Mencarelli, così si chiama anche il protagonista del libro, viene portato dopo una serata di follia in cui tutta la sua rabbia è esplosa contro il padre.

Una settimana in cui le ore scorrono lente e sempre uguali a sé stesse, scandite solo dagli orari del pranzo e della cena (i pazienti non hanno un orologio con sé e siamo ancora lontani dall’epoca di cellulari e internet), un tempo sospeso in cui sembra non accadere nulla e invece, alla fine, tutto accade. Daniele trova ad attenderlo dei compagni di viaggio tanto strampalati quanto solidali e finalmente, dopo vent’anni trascorsi a cercare di essere ciò che non è, trova la forza di mettersi a nudo.

Madonnina, di cui nessuno sa nulla, neppure il nome, ripete ossessivamente la stessa invocazione alla Vergine; Alessandro, con lo sguardo costantemente fisso verso il medesimo punto, immobile e inerme; e Mario che cerca conforto nell’uccellino che vive nell’albero del cortile dell’ospedale: sono gli ospiti “fissi” del reparto, parcheggiati nei loro letti senza apparente via d’uscita. Insieme a Daniele, però, ci sono pure Giorgio e Gianluca, anch’essi presenze passeggere nel reparto, tutti accomunati da un forte legame con la madre. Gianluca teme più di ogni altra cosa il giudizio di chi lo ha messo al mondo –  in un’Italia anni Novanta in cui omofobia e transfobia erano certamente più violente di oggi – Giorgio, un gigante dalla forza fuori controllo che non ha mai superato la mancanza della mamma, e infine Daniele che alla madre, unica lettrice delle sue poesie, è legato da un amore speciale.

Fra i sei pazienti, costretti a condividere il caldo estivo mischiato alla puzza di sudore, di urina e di pessimo cibo, nasce un’amicizia profonda e sincera, dettata dal riconoscersi sulla stessa barca nel mezzo della stessa tempesta e dal desiderio di rimanere a galla, aggrappandosi con le unghie e con i denti a qualcuno. “I miei fratelli”, come li definisce Daniele, sono quelli che più sono di aiuto nei giorni lentissimi del TSO.

La lingua come distinzione di ruoli: paziente, medici, infermieri

Gli infermieri cercano di barcamenarsi fra turni notturni e domenicali, agognati per guadagnare meglio, e una schiera di pazienti visti più con paura che con professionalità mentre i medici sono lontani, si addormentano durante le sedute e confondono i pazienti fra di loro, tante sono le cartelle cliniche che scorrono ogni giorno davanti ai loro occhi.

E se c’è un elemento che più di tutti segna la distanza incolmabile fra pazienti, medici e infermieri è la scelta di differenti registri linguistici. Il dialetto romanesco, così diretto e sguaiato, è quello utilizzato dai pazienti e da Pino, l’infermiere che spera solo di guadagnare abbastanza per andarsene dal reparto e aprire il suo chiosco da fruttivendolo: “Te sei un ragazzo, cerca de non finicce più qua dentro, questo è ‘n girone infernale, ma mica solo per voi matti, qua chiunque ce capita resta imprigionato”, è il suo consiglio al protagonista. Daniele si esprime in italiano, o almeno ci prova, solo quando scrive la sua poesia sul quadernone e quando è a colloquio con lo psichiatra: “La stanchezza, mischiata a un senso di profonda rassegnazione, non mi permette di controllare il dettato, parlare in italiano costa fatica”. Solo l’ex insegnante Mario parla con gli altri ricoverati senza cedere al dialetto: è infatti l’unico a cui si rivolge il primario nel suo giro di visite, consiglia a Daniele i componimenti di Caproni e lo spinge a leggere, per la prima volta in pubblico, la sua poesia.

Senza attingere alla retorica di stampo basagliano e senza scadere nella compassione o nell’incomprensione, Mencarelli ci fa entrare nelle viscere di questa esperienza, dai chiari riferimenti autobiografici, in cui una schiera di uomini drammaticamente vivi tenta di combattere il vero nemico, quello che si annida in loro stessi.

a cura di Barbara Rossi

 

 

Barbara Rossi

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *