Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8 di Massimo Ammaniti: nulla è irrecuperabile. Recensione

 Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8 di Massimo Ammaniti: nulla è irrecuperabile. Recensione

«Avevo poco più di trent’anni quando discesi volontariamente in quell’abisso». Così prende avvio il romanzo autobiografico Passoscuro (Bompiani, 2022) di Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo a Roma, che con implacabile realismo riporta alla memoria il suo intenso lavoro all’interno delle strutture psichiatriche in Italia. Il commovente racconto dell’autore cerca di ritessere il filo narrativo che ha connesso la sua vita personale con l’impegno professionale, affondando con maggiore nitidezza lo sguardo al periodo trascorso presso il Padiglione 8, reparto psichiatrico dell’ospedale romano Santa Maria della Pietà, dove venivano ricoverati bambini e adolescenti diagnosticati «irrecuperabili».

I due anni passati in questo istituto, definiti «intensi e drammatici, fatti di momenti di entusiasmo e altri di grande sconforto», rappresentano per il giovane Ammaniti uno snodo nella sua carriera dedita alla cura dei disturbi mentali; è proprio a cominciare da questa perturbante esperienza sul campo, dura e a tratti spesso demotivante, che l’autore sarà in grado di attuare la sua piccola grande rivoluzione, dando corpo nel tempo a una lunga serie di azioni trasformative che rinnoveranno l’intero sistema della neuropsichiatria infantile e la percezione generale che si ha delle disabilità e dei disturbi mentali nel nostro Paese.

Cosa significa Passoscuro, il nome che dà il titolo al libro? Passoscuro è una località balneare vicino Roma, la spiaggia dove Ammaniti decide di organizzare, per la prima volta nella storia del manicomio di Santa Maria della Pietà, una giornata speciale, una gita al mare per concedere ai suoi bambini, bituati a vivere nella penombra di squallidi stanzoni privi di arredamento e con finestre semichiuse, una fuga provvisoria dalla reclusione, dalla ripetitività e dal senso comune di oppressione. Il mare rappresenterà infatti un’esperienza liberatoria di evasione, da una struttura chiusa, segregativa, a uno spazio aperto, senza pareti di confine, dove non esistono né regole né costrizioni. La giornata a Passoscuro, inedita, folle al tempo per l’eccezionalità dell’iniziativa, segnò un primo, irreversibile, passo verso un cambiamento di approccio e abitudini all’interno degli ospedali psichiatrici.

 

Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8 di Massimo Ammaniti: la trama del libro

Dopo il racconto dello straordinario episodio a Passoscuro, Ammaniti ripercorre i propri ricordi narrando di quando fu convocato la prima volta a lavorare presso l’istituto di Santa Maria della Pietà, da dove rassegnò le dimissioni appena dopo un giorno di servizio. Era il 1966 e lui era ancora un giovane medico appena laureato. Durante la prima visita, gli si era dischiuso intorno un’ambiente infernale, respingente e impersonale, con condizioni psicologicamente disumane e brutalizzanti per chi era costretto a viverlo o a lavorarci ogni giorno, ovvero bambini medici suore e infermiere. I giovanissimi pazienti che incontrò durante quella occasione erano custoditi in stanzoni chiamati «sorveglianze». Erano tutti vestiti con camici uguali a righe blu o rosse – a seconda del sesso –, abbandonati a urla e pianti sommessi o intorpiditi in uno stato di sofferenza e alienazione. Alcuni di loro, quelli giudicati più «pericolosi» per loro stessi e per gli altri, erano reclusi al piano superiore e giacevano allettati con mani e piedi legati. Nessuno di loro aveva con sé un oggetto o un affetto personale. Un malessere esistenziale trasudava dalle pareti verde chiaro di quei corridoi che puzzavano di varechina. Il primo ingresso in quell’inferno istituzionalizzato rappresentò, pertanto, per Ammaniti una sconcertante catabasi, che lo persuase a fuggire subito via.

Ritornerà sei anni dopo, nel ’74, spinto da un «debito con sé stesso» per questo abbandono e animato da una profonda esigenza etica. Si ripropose infatti di liberare, per quanto possibile, quei bambini dallo stato di degrado e squallore in cui erano abituati a vivere e a restituirgli una vita più dignitosa. Il concetto di irrecuperabilità era infatti per lui soltanto un alibi dei medici per non fare nulla, non intervenire, non lasciarsi coinvolgere in casi di una certa complessità.

Ammaniti, adesso, poteva contare, invece, su un bagaglio di esperienze e conoscenze maggiori. Aveva concluso da poco la specializzazione in Neuropsichiatria infantile, guidato da maestri come Giovanni Bollea e Bruno Callieri. Durante gli studi apprese non soltanto i fondamenti di questa disciplina, ma anche, e soprattutto, i limiti in cui era rimasta invischiata per decenni. La psichiatria dai primi del ’900 in poi si era infatti sempre riconfermata in Italia, a parte alcune sparute eccezioni, come un’ortodossia inflessibile. I trattamenti sui pazienti psichiatrici, prima ancora che la legge Basaglia nel 1978 sancisse una riforma necessaria e lo smantellamento dei manicomi, si limitavano infatti a fare un elenco di disturbi e sintomi, e a sottoporre i pazienti a terapie farmacologiche ed elettroshock, senza prestare la minima attenzione alla storia e alla dimensione individuale della persona. Di pari passo, governo, burocrazia e gran parte dei partiti si dimostravano indifferenti di fronte a questa drammatica realtà sociale sulla quale nessuno era disposto a gettare lo sguardo.

 

Ridare dignità ai pazienti: l’obiettivo di Ammaniti

In controtendenza alla norma vigente del tempo, le proposte di Ammaniti presero corpo da piccoli e semplici gesti, come: ridare dei vestiti ai bambini ricoverati, fargli riscoprire la dimensione del gioco, e chiamarli con il proprio nome, così da riconsegnarli un’identità nella quale loro stessi, e chi altro intorno, potesse riconoscerli. Ammaniti credeva infatti che la sofferenza di chiunque dovesse essere curata attraverso una profonda capacità di ascolto e di comprensione, e un attento percorso riabilitativo di stimolazione fisica e mentale, specialmente nel caso pazienti che sin dai primi anni di vita erano stati privati di un contesto ambientale confortevole, di stimoli educativi e relazionali. Un approccio olistico e umano era secondo Ammaniti la chiave per offrire a queste persone una vita più vivibile e felice.

Il lavoro di cura e di ricerca costante intrapreso da Ammaniti, e il suo impegno civile e politico – segnato anche dall’iscrizione al Partito comunista –, si inseriscono in un quadro più ampio di polemica scientifica e trasformazione sociale: erano quelli gli anni in cui si stava diffondendo un movimento di critica contro i servizi pubblici repressivi e verso tutte le istituzioni manicomiali. Si lottava non soltanto per un cambiamento dell’assistenza psichiatrica, ma contro tutte le forme di autoritarismo e di oppressione esercitate sugli anelli più deboli della società, condannati alla marginalizzazione e alla discriminazione. Era diventato oramai necessario un cambio di rotta che scardinasse un’organizzazione sclerotica e ingessata sottoponendo «a terapia» un’intera società vittima di pregiudizi, paure e superstizioni popolari, specialmente nel contesto dei disturbi della mente.

Il contributo di Ammaniti, insieme a quello di altri psichiatri rivoluzionari dell’epoca, fra cui Franco Basaglia e Adriano Ossicini, portarono a una riforma, ovvero a un’assistenza, volta all’integrazione e l’inclusività dei pazienti psichiatrici all’interno del tessuto sociale, una migliore qualità di vita all’interno dei centri di salute mentale, una maggiore presenza di strutture territoriali rispetto al passato, e cosa più importante: il rispetto della vita di ogni individuo e il suo diritto alla felicità, nessuno escluso. Non tutti i traguardi sono stati ad oggi raggiunti come ci si aspetterebbe, ma la portata rivoluzionaria del lavoro compiuto dallo psicanalista e scrittore Ammaniti ha di certo contribuito al cambiamento e a una nuova incrollabile consapevolezza.

 

La scrittura di Massimo Ammaniti in Passoscuro

Lo stile di Ammaniti è chiaro e semplice, nelle descrizioni di fatti e analisi di pensiero, e rivela il suo desiderio primario di ripescare dai suoi ricordi i tasselli significativi di storie e persone che hanno composto il mosaico della sua vita. È una scrittura che coinvolge ed emoziona, per il fatto stesso che a coinvolgere e a emozionare sono le storie stesse, gli eventi narrati, e i traguardi raggiunti, che sembrano riemergere vividi dalla memoria attraverso le pagine di questo libro.

 

A cura di Clara Frasca

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