La tua assenza è tenebra di Jón Kalman Stefánsson: scrivere per essere come Dio. Un affresco islandese. Recensione

 La tua assenza è tenebra di Jón Kalman Stefánsson: scrivere per essere come Dio. Un affresco islandese. Recensione

Con La tua assenza è tenebra torna in libreria Jón Kalman Stefánsson, autore islandese molto apprezzato in Italia, la cui opera è pubblicata nel nostro Paese da Iperborea e interamente tradotta da Silvia Cosimini. In questo romanzo Stefánsson cita Hölderlin e Bruce Springsteen, stila per il lettore la «playlist della Morte», e tratteggia con disinvoltura molteplici trame che restituiscono un ricchissimo disegno complessivo; la prosa, sempre sostenuta dal lirismo che la contraddistingue, è ambiziosa e prosegue la ricerca che l’autore ha iniziato molti decenni fa, arricchendosi di sfumature nuove.

 

La tua assenza è tenebra di Jón Kalman Stefánsson: la trama del libro

«Il tuo ricordo è luce, la tua assenza è tenebra»: è l’iscrizione che il protagonista legge su una lapide, mentre vaga per il piccolo cimitero di un villaggio islandese. Un raggio di sole penetra il suolo, a dare conforto ai defunti. Solo poche pagine e l’autore ha già introdotto, con immagini precise, uno dei temi centrali del romanzo, ovvero il tentativo dei vivi di trovare un dialogo con il mondo dei morti, di raggiungere piani di comunicazione possibile.

La narrazione prende dunque avvio nel segno dell’oscurità, non solo dei temi: il punto di vista è infatti quello di un protagonista senza memoria, che costringe il lettore a seguire il suo sforzo di ricostruzione: gli eventi che lo hanno condotto fino a quella piccola lapide ricoperta dal guano; l’identità degli altri personaggi e soprattutto le loro motivazioni. In un groviglio di esistenze spesso difficile da dipanare per il lettore, Stefánsson mette in scena la storia di diverse generazioni che hanno vissuto nel placido fiordo nel quale si apre il racconto. Non si tratta di vicende eroiche, a meno che non si intenda riformulare i canoni dell’eroismo misurandoli con le condizioni di vita estreme che l’Islanda impone, e con la vocazione tragica che l’autore riconosce ai rapporti familiari. Oltre che nel reiterato tentativo di comprensione della morte, tutte le vicende raccontate si definiscono soprattutto in rapporto alla ricerca di un equilibrio doloroso, e forse irraggiungibile, tra il coraggio necessario per inseguire la felicità e il dolore che può causare. Sul binomio coraggio/moderazione – persino ossessivo per certi personaggi che unicamente su questa alternativa fondano la loro sorte – Stefánsson costruisce gli snodi più importanti del romanzo; lascia peraltro all’inaffidabilità del narratore il compito di rispondere in modo sempre diverso allo stesso input: «È maturità oppure vigliaccheria rassegnarsi al proprio destino?». La risposta che smuove la narrazione – la vita dei personaggi – è sempre nell’errore, nell’avventatezza, ma è una risposta precaria: qualche pagina dopo, infatti, si legge che «la moderazione è l’ancora della vita».

Impossibile trovare quiete, seppure instabile, per il lettore.

L’Islanda nella produzione di Jón Kalman Stefánsson

Chi abbia mai letto un romanzo dell’autore islandese sa di essere legittimato ad aspettarsi un’esperienza di lettura emotivamente coinvolgente. La prosa di Stefánsson non è cerebrale, eppure è ricca di spunti intellettuali; ha molto a che fare con il corpo e la sensualità, ma chiama continuamente in causa i grandi temi esistenziali: la vita, la morte, l’amore. Si direbbe semplice: il suo sembrerebbe un modo ingenuo di guardare a un mondo che sempre più si avvita dentro la moltiplicazione e la stratificazione dei significati. E lo è, ingenuo, in un certo senso, ma per comprendere bene la questione occorre aggiungere un tassello fondamentale, ovvero l’«islandesità» dell’autore.

Se si volesse rappresentare l’Islanda a livello cromatico, il risultato sarebbe essenziale: è bianca di neve, nera di lava, circondata dal blu del mare. Stefánsson attribuisce ai potenti fenomeni naturali che interessano l’isola, e che ne determinano la geografia, il ruolo di punti cardinali dell’isola stessa: «Il vento, il mare e l’eterno» sono quelli di Keflavík, scrive in I pesci non hanno gambe (Iperborea, 2013). Ma occorre tenere in conto anche il freddo, se ci fosse bisogno di ricordarlo, e un rapporto controverso con il mare che, per l’isola, è anche portatore di sventure dal mondo esterno, tomba dei corpi di tutti i pescatori che lì hanno perso la vita, come raccontato soprattutto in Paradiso e inferno (Iperborea, 2011). La notte e il giorno, il buio e la luce in Islanda sono concetti così netti da dividere l’anno in due momenti distinti, di morte e rinascita. Si potrebbe proseguire nella speculazione, probabilmente, fino a ipotizzare una certa nitidezza mentale ispirata dai paesaggi islandesi e dai suoi contrasti così netti.

Le opere di Stefánsson si tengono vicendevolmente:  ognuna approfondisce e moltiplica i significati interni dell’altra, e i conseguenti rimandi intertestuali. Quella raccontata dall’autore è in sostanza un’unica, grande storia, declinata e arricchita di volta in volta da rinvigorenti variazioni geografiche e cronologiche.

La scrittura di Jón Kalman Stefánsson in La tua assenza è tenebra

In La tua assenza è tenebra Stefánsson conduce in modo sempre più estremo, spavaldo quasi, il gioco dell’intreccio cui ci ha abituati nella sua produzione.

Qui è forte l’intervento metanarrativo, tramite il quale il narratore si rivolge al lettore e lo aiuta a raccogliere i fili della trama in alcuni passaggi; in altri casi rimane il sospetto che tale intervento sia un espediente per inserire ancora un’analessi, un accenno di prolessi – come per sbaglio – e proseguire quel gioco estremo: «Ricordati i loro nomi e per il resto non ti soffermare su questi due, almeno non per il momento, li citiamo e quasi contemporaneamente svaniscono di nuovo nell’ombra, restano sullo sfondo, da lì ci osservano e faranno un passo avanti solo quando saranno interpellati».

Tanto più il gioco è stato audace, tanto più il risultato appare compiuto: l’ambiziosità di tendere archi narrativi secondari – lo stile di Stefánsson, del resto, poco si presta alla linearità – trova appagamento nella tenuta saldissima della funambolica struttura.

E quando – soprattutto dopo aver letto più di una delle sue opere – si prova la sensazione di conoscere la storia, quando i personaggi sfilano sempre più familiari, l’invenzione impenna e, di nuovo, stupisce.

C’è, in questo romanzo, una rappresentazione molto vasta delle vicende umane: siano esse grottesche, imbarazzanti, carnali, oscure, confuse, alte, meschine, tutte trovano il loro posto. Con volontà che appare ancor più precisa che altrove, l’autore cerca qui di significare il potere della scrittura, e ci riesce assegnando all’atto dello scrivere un posto narrativo: «Alzo gli occhi dai miei fogli, e tutti spariscono. Vengono risucchiati come ombre in un passato svanito da tempo». Se il tempo lavora in un senso – «Il compito principale del tempo, allora, è ammazzare la gente?» si chiede il narratore – la scrittura lavora in quello opposto: e allora il potere di scrivere equivale a quello di far vivere le persone. Persino nell’universo di Stefánsson, in cui ogni equilibrio raggiunto genera la nascita di «un buco nero» da qualche altra parte, si delinea una quiete meno precaria.

 

A cura di Chiara Marino

Chiara Marino

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