Veronica Galletta ci racconta in 10 punti il suo Pelleossa, un piccolo romanzo epico in una Sicilia incantata

 Veronica Galletta ci racconta in 10 punti il suo Pelleossa, un piccolo romanzo epico in una Sicilia incantata

«Paolino aspettava la parola dei vivi e il ritorno dei morti, in un modo tutto suo, come di chi aspetta senza aspettare, perché se le stelle se ne accorgevano, che stava aspettando, la notte poi i diavola lo venivano a cercare». Pelleossa di Veronica Galletta, edito da minimum fax lo scorso settembre, è una storia di vivi e di spiriti, di luoghi che non esistono ma esistono nella memoria di ognuno di noi. Questo romanzo è un piccolo romanzo epico, nel quale la parola è impasto in lievitazione da secoli; ha inglobato culture e sonorità di molti mondi di molte epoche.

Pelleossa di Veronica Galletta: la trama del libro

Siamo in Sicilia, il secondo conflitto mondiale è alla fine, gli americani sono sbarcati nel paese fittizio di Santafarra. È qui che vive il piccolo Paolino Rasura. Come capita spesso tra bambini, per farsi accettare deve superare una prova di coraggio ed entrare nel Giardino di quel pazzo di Filippu. Il Giardino è un luogo spaventoso e incantato al tempo stesso. E Filippu è il guardiano di questo luogo, è anche un uomo solo, che passa il suo tempo a scolpire le teste di pietra che adornano il Giardino. Queste ultime saranno le testimoni del legame fra Paolino e Filippu, un’amicizia che crescerà mentre sullo sfondo si avvicenderanno la Storia, ma anche le questioni familiari e le vicende di paese, nonché l’ansia di Paolino di diventare adulto, il tutto tenuto insieme da una lingua impastata di dialetto siciliano, dalla musicalità straordinaria e che è essa stessa racconto.

Ma come e da dove nasce questa lingua e questa storia? A raccontarci il dietro le quinte di Pelleossa è la stessa autrice, Veronica Galletta.

Pelleossa di Veronica Galletta raccontato da Veronica Galletta

1  – da dove arriva?

«Vittorio Immanuele Garibbaldo Toro Seduto/Tutti mi hanno guardato».

Sono i primi versi di Bentivegna, una canzone dei Virginiana Miller, che racconta la storia di un uomo che vive chiuso nel suo giardino, e scolpisce tutto il giorno. Dalla sua figura, realmente esistita, arriva il personaggio di Filippu. E piano piano intorno a lui sono cresciuti tutti i personaggi, come certa pasta lievitata che fai fatica a contenere, e ti tocca cambiare ciotola.

2 – in che lingua parla?

Perché dire una parola, e non un’altra? Prendiamo i fiammiferi: in siciliano si possono dire pospiri o cirina, e io ho scelto pospiri. Perché? Perché mi piace più il suono. Il libro parla questa lingua, una lingua fonetica e musicale, senza nessuna pretesa filologica o di coerenza. Solo, ho scelto le parole una a una, perché fossero lisce all’orecchio come la pietra morbida di certe cattedrali del barocco.

3  – come comincia?

C’è un bambino su un albero, che assomiglia a tanti bambini su tanti alberi, come il ragazzo sul sicomoro de L’arpa d’erba di Capote. «Senti? È un’arpa d’erba, che racconta qualche storia. Conosce la storia di tutta la gente della collina, di tutta la gente che è vissuta, e quando saremo morti racconterà anche la nostra storia», si legge nella prima pagina de L’arpa d’erba, ma il perché di questa citazione è giusto che lo trovi chi legge.

4 – e quando comincia?

«Il tempo che scorre lungo i bordi ascolta/Ogni cosa qui dentro aspetta un segnale», così cantano i Massimo Volume, e a me interessava come scorre il tempo quando si vive in una zona liminale, di confine. Come in Sicilia, così lontana da tutto, pure dalla guerra, quando nel 1943 aspetta lo sbarco degli Americani, alla ricerca di un cambiamento che nemmeno lei sa.

5 – sì, ma perché raccontare oggi una storia del 1943?

Ci sono storie che hanno andamenti emblematici, ci sono storie sepolte da disseppellire, ci sono storie che permettono all’interno frammenti fuori tempo, che si conficcano dentro di noi e fanno male anche se non ce ne accorgiamo. A tutto questo tendevo, cercando in me l’occhio e l’intenzione contemporanea per raccontarne.

6 – sì, ma da dove comincia?

È vero, il quando non racconta il dove. La storia comincia da un punto preciso, conficcato vent’anni prima del luglio del 1943. Un punto che è una casa, la Casa Verde, intorno al quale la storia di due famiglie, i Lena e i Rasura, girerà senza trovare pace. A questo fa riferimento l’esergo del romanzo, da Il teatro della memoria di Sciascia.

E tuttavia quei frammenti, quelle

pietruzze, se mostrate al momento

giusto, alle persone per disattenzione

o per prevenzione disposte a dargli

valore, ecco che diventavano, come

si suol dire e come è nell’animo

umano, la parte maggiore del tutto.

7  – e Santafarra dov’è?

È un paese come tutti, ma come tutti si crede diverso: c’è proprio scritto nella prima pagina del romanzo. In questo senso, è quasi una dichiarazione di intenti, e il romanzo infatti mescola luoghi che conosco ad altri che ho solo immaginato. Una cava della Sicilia orientale, un cimitero di un piccolo paese nell’entroterra, il Giardino incantato di Sciacca, un porto come tutti, isole che esistono ma dai nomi deformati e dalla localizzazione deviata. Santafarra è la mia Creatura. Per parafrasare il Filippu apocrifo della citazione che chiude il libro: «Questo è il mio Castello, e iu sugnu Imperatore».

8  – scrivere da lontano, andare lontano a cercare

Questo libro l’ho scritto nel tempo, per pensarlo ho girato per le campagne della Sicilia, trascinando la mia famiglia fra le statue di pietra, dentro miniere in disuso, giù per villaggi abbandonati. Abbiamo camminato sotto il sole, mangiato panini, preso pioggia e vento inusuale. Per lui mi sono spinta fino a Losanna in Svizzera, sulle tracce degli artisti dell’arte brut. Ma più di tutto, l’ho scritto da dentro la mia testa, con la libertà che solo la distanza ti può dare.

9  – e io, dove sono?

Da lontano i ricordi si distillano, gli attriti scolorano. Restano gli aneddoti, i modi di dire, la visione tragica, comica e grottesca di una famiglia siciliana come tante, che è quella da cui arrivo. Sono nei nomi degli animali, Blecchi come il cane di mio zio, Nerina come la gatta di mio padre. Sono in Ncantesimo, il soprannome di mio fratello, o nei pipi chini che cucinava mia nonna. Sono nelle favole che mi hanno raccontato, in Re Pipi fatto a mano, nella penna di hu, nelle testine di agnello.

10  – e io, chi sono?

Io sono Filippu, l’ossessione del gesto ripetuto ostinatamente, anno dopo anno; non ho una mazzetta, non scolpisco la pietra: uso le mie dita e a volte tutto il corpo, e modello le parole. Io sono Paolino, la paura, la furia, lo spaesamento; nel recinto sicuro delle parole, posso permettermi l’innocenza con cui guardare al mondo. «Le teste senza forza dei morti mi hanno parlato», dice un verso di Bentivegna. E noi le abbiamo ascoltate.

 

A cura di Veronica Galletta e Valeria Zangaro

Valeria Zangaro

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