4 poetesse italiane del ‘900 da riscoprire: da Lalla Romano ad Amelia Rosselli

 4 poetesse italiane del ‘900 da riscoprire: da Lalla Romano ad Amelia Rosselli

Siamo stati abituati, negli anni passati sui banchi di scuola, a credere che la letteratura “di valore” sia stata scritta solo da uomini. Tutti conosciamo Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni e Omero, ma probabilmente pochi sanno chi è la Comtessa de Dìa – la trovatrice provenzale che, con una modernità ante-litteram, ha raccontato l’amore nelle sue pieghe più disinibite. Le stesse scrittrici erano consapevoli di questo meccanismo, tanto che Mary Ann Evans, per evitare che le sue opere fossero catalogate come “letteratura per signore”, decise di assumere lo pseudonimo maschile di George Elliot. Eppure, di scrittrici rivoluzionarie e fondanti, la letteratura mondiale è ricchissima: potremmo parlare di Saffo, Charlotte Bronte, Wyslava Szymborska.

Perché la poesia è un genere letterario “ostico”?

Anche di poesia si discute molto poco. Probabilmente perché leggere una poesia significa accostarsi a un testo scritto in una lingua propria, a volte intenzionalmente misteriosa. È per questo che negli anni ci hanno riempiti di parafrasi e commenti, facendoci credere che non sia possibile capire alcunché se non si posseggono gli strumenti giusti. Ma, come avrebbe detto Kandinskij, l’arte è tale in quanto turba e affascina, indipendentemente dalla comprensione che ne abbiamo. Di fronte a La Bufera di Eugenio Montale possiamo non capire cosa stia accadendo, ma è inevitabile che ciascuno di noi avverta nitidamente il rumore dei fulmini, la natura che ribolle, l’inquietudine che sale. C’è, infatti, una musica di fondo – una forza espressiva – che nessuno potrebbe ignorare. Del resto cos’è la poesia se non il racconto, attraverso una forma perfetta e sublimata, di tutto ciò che riguarda l’Uomo?

Oggi parleremo proprio di questo: scrittrici e poesia. Andremo controcorrente, probabilmente, ma non potremmo fare altrimenti: Rivista Blam è una realtà anomala. (Ri)scopriremo, quindi, donne e versi dimenticati, in un percorso che racconterà il dolore e la passione, la delicatezza e la pesantezza del vivere.

4 poetesse italiane del ‘900

Lalla Romano (1906-2001)

Pittrice, poetessa, attivista nei “Gruppi di difesa della donna”: Lalla Romano fu una donna poliedrica e impegnata. Aveva un carattere forte e deciso, oltre che una sensibilità spiccata: quando Einaudi si rifiutò di pubblicarne la raccolta d’esordio, lei decise di inviargliene comunque una copia, scrivendo: “a chi non ha voluto stampare questo libro”.

Nelle sue poesie, tuttavia, la determinazione scompare per fare posto a una leggerezza di sguardo e sentimento. Le parole della Romano non hanno la precisione di un bisturi, ma la delicatezza di una carezza. Planano sulle passioni umane, ne aggirano i contorni, con una voce che rimane sempre leggiadra e quasi danzante: non a caso una delle sue pubblicazioni in prosa si intitola “Le parole tra noi leggere”. In queste parole leggere c’è tutta la bellezza degli elementi interstiziali, dei silenzi che ammantano il mondo:

«Solamente il silenzio / oltre il gelo dei mondi /oltre il solitario passo dei vecchi / oltre il sonno dimenticato dei morti / solo il silenzio vive.»

Nonostante ciò, la Romano non rinuncia a indagare le contraddizioni del vivere, né a rappresentare il dolore. Insegna, piuttosto, a sublimarlo in una forma perfetta e eterna, come in questi versi:

«Come i complici fingono / tra loro di non conoscersi / noi ci passiamo accanto / con spasimo e senza gioia. / Ci trasciniamo come corpi / mutilati, storpi: adeguati / ad un mondo diviso.»

lalla romano

La sua poesia è un racconto quotidiano e intimo, la memoria di una giovinezza e il testamento di una vecchiaia. Ma è, soprattutto, un invito a guardare il mondo con delicatezza e sospensione – proprio come, del resto, insegna Calvino: la letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere.

Amelia Rosselli (1930-1996)

Quando il critico letterario Pier Vincenzo Mengaldo costruì una sorta di canone della poesia italiana del ‘900, Amelia Rosselli fu l’unica scrittrice donna a essere inclusa. Facilmente capiamo il perché: avendo ricevuto un’importante educazione musicale, era riuscita a costruire testi che profondevano armonia e ritmo da ogni dove. Questo tipo di ricercatezza, tuttavia, accompagnava una straordinaria capacità di raccontare il quotidiano – tanto che nelle sue poesie compaiono qui e lì parole sgrammaticate e costruzioni tratte dal parlato.

Probabilmente Amelia cercava, attraverso questa immediatezza, di raggiungere l’orecchio giusto: quello che sarebbe stato in grado di comprenderla, accoglierla. Aveva, infatti, molto da raccontare: da ragazza il fascismo le aveva strappato via il padre e alcuni fratelli; anni dopo il Parkinson l’avrebbe piegata di continuo. La sofferenza non la lasciò mai, anzi, diventò una sorta di compagna abituale – una presenza indesiderata. La poesia doveva quindi esorcizzarla, diventando racconto catartico:

«C’è come un dolore nella stanza, ed / è superato in parte: ma vince il peso / degli oggetti, il loro significare / peso e perdita.»

amelia rosselli
Foto di Dino Ignani

Ma, come leggiamo, il peso vince: ed è per questo che l’11 febbraio del 1996 la Rosselli decise di mettere fine alla propria vita. Si chiudeva così, tragicamente, una parabola esistenziale fortemente sofferta. La data non era casuale: esattamente trentatré anni prima anche la poetessa Sylvia Plath si era tolta la vita. Entrambe erano animate dalla stessa, pericolosa, angoscia esistenziale. Non a caso Amelia l’aveva amata e tradotta, nel corso degli anni. Quel freddo giovedì di febbraio decise, probabilmente, di riavvolgere il tempo e ripercorrerlo – sprofondando, anche lei, nell’abisso della morte.

Antonia Pozzi (1912-1938)

«Vivo della poesia come le vene vivono del sangue»: così scriveva la poetessa Antonia Pozzi, testimoniando una vera e propria inter-dipendenza tra vita e arte. La sua poesia è, infatti, una sorta di diario interiore: registra ogni sussulto del cuore, ogni sofferenza celata.

La sua vita fu drammatica e breve: si suicidò quando aveva solo ventisei anni, mettendo fine a un tormento esistenziale che l’aveva consumata nel tempo. Il mondo le appariva, probabilmente, come insidiato da una malvagità di fondo: dopo una relazione ostacolata dai genitori che non riuscì mai a dimenticare, coltivò speranzosa passioni che si rivelarono a senso unico. La guerra le strappò gli amici più cari, proprio quando credeva di aver ricominciato a vivere. È per questo che nel suo biglietto d’addio esprime tutta la rassegnazione di chi ha dovuto imparare a fare a meno della felicità e dell’amore:

«ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita. […] Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. La vostra Antonia»

Antonia_Pozzi

Nelle sue poesie troviamo parole asciutte e dure come i sassi, ridotte al minimo di peso – come le definiva Eugenio Montale. Antonia, infatti, racconta con un filo di voce, come una sopravvissuta che sa di essere vicina alla fine. Si ostina, cieca, a cercare la bellezza e la quiete anche nel travaglio più profondo. Sublima il malessere, immaginando scogliere di stelle e mondi diversi. E dimostra, così, quale sia il compito sublime della poesia:

«prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e placarlo, trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare.»

Sibilla Aleramo (1876-1960)

Sibilla Aleramo fu una pacifista, attiva nella lotta per i diritti delle donne e coraggiosa testimone degli scandali di una società patriarcale. Aveva soli quindici anni quando fu vittima di abusi e, solo due anni dopo, venne costretta a sposare il suo stupratore. Da questa sofferenza, e dalla conseguente decisione di abbandonare marito e figlio per trovare la parvenza di una vita normale, nasce la preziosissima biografia Una donna. Ma la sua denuncia sociale, tanto moderna per il tempo in cui scrive, emerge anche nelle sue poesie. Le sue parole, infatti, indagano tutta quella violenza che – in quanto donne – abbiamo imparato a interiorizzare e considerare normale. E, allo stesso tempo, risuonano ancora oggi come inviti a riscattarsi:

«Non il seme d’un uomo in me/ non un embrione dal mio sangue nutrito / ma nel mio spirito / l’ansiosa proiezione, donna, di te / di quella che tu sarai / che lentamente si plasma si accresce / batte alle porte vuoi vivere […] E non io sola, molte e molte / al par di me in seno ti recano / e in lampi di benedizione / qualcosa del sereno tuo sguardo in lor già traluce / in salvo anch’esse la visione di te / la speranza la visione di te portano / mentre il mondo d’oggi ci dileggia / torvo e cieco ci osteggia.»

(Donna nel domani nel mondo)

sibilla-aleramo

Con la stessa intensità ha raccontato anche l’amore: «il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso». Durante la sua esistenza si legò, infatti, a moltissimi artisti: potremmo citare Boccioni, Cardarelli, Quasimodo. Nessun amore, tuttavia, fu intenso quanto quello che visse per Dino Campana, poeta visionario e fortemente instabile. Come è naturale che accada tra personalità decise, si amarono tanto intensamente da arrivare a odiarsi e ferirsi reciprocamente. A lui è dedicata una delle poesie più belle della scrittrice, manifesto di una passione violenta e dell’influenza del poetare antico:

«Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, / meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo, / liberi singhiozzando, senza mai vederci, / né mai saperci, con notturni occhi.»

Rebecca Molea

Rebecca Molea

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