Traslochi: un racconto di Alice Albertini

 Traslochi: un racconto di Alice Albertini

Illustrazione di Mari Madeo

Incontrai Bogdan due volte: la prima a Pisa, e poi, qualche giorno dopo, a Bruxelles. Aveva gli occhi molto piccoli e mi ascoltava senza troppa attenzione. Gli affidai il mio appartamento, vivisezionato in centosei scatole, caricate sul suo camion dalla targa polacca. Al suo arrivo a Bruxelles mi disse: «Ci sono due scatole in più, non te ne eri accorta?».

Il mio non era stato un trasloco frettoloso, avevo avuto tre mesi per organizzarlo meticolosamente. Avevo seguito le istruzioni della compagnia di trasporti su come imballare bene piatti e bicchieri, i consigli delle amiche su come sbarazzarmi di vestiti che non indossavo più, gli avvertimenti di mio marito perché «dove andiamo la casa è più piccola e non puoi portarti tutto dietro» e le ricette del medico per riuscire a dormire di notte.

Il momento in cui Bogdan iniziò a caricare i pacchi senza un ordine apparente sul suo camion, mi sentii spaesata. Chissà quel camion quante altre case aveva traghettato. «Non sarebbe meglio mettere le piante su quel lato e spostare la bici di qua?» gli chiesi, senza ricevere nemmeno uno sguardo in cambio. Bogdan guidava da solo, e al posto del passeggero aveva una coperta e delle scorte di cibo, e ai piedi del passeggero un fornello portatile con una padella incrostata di sugo. Era come se Bogdan e tutta la sua noncuranza sapessero meglio di me cosa mi stavo lasciando indietro per sempre e cosa mi stavo portando appresso senza saperlo.

«Sai che lavoro facevo, prima di questo?» mi chiese a un certo punto, prendendosi una pausa. C’era un caldo torrido, ma Bogdan non sembrava esserne infastidito. Era la prima volta che mi rivolgeva la parola spontaneamente da quando era arrivato, e non servì un mio cenno perché continuasse a parlare. «Facevo il dentista. A Dnipro facevo il dentista. Ero molto bravo.» I suoi occhi non cercavano la sfida, eppure nella sua voce si era acceso un moto di ribellione, per poi spegnersi finita la frase. Bogdan era apparso a casa mia due ore prima, in anticipo di un’ora, inviato dalla ditta dei traslochi, mentre stavo facendo un’animata colazione con mio marito in giardino. La nostra ultima colazione , finalmente la nostra ultima litigata, a colazione, . Aveva saltato i convenevoli, non aveva voluto nemmeno un caffè, gli mostrai le scatole da caricare, numerate una a una, e si mise subito al lavoro. Il gatto iniziò a seguirlo nel suo percorso casa-parcheggio-camion, dimostrandogli più confidenza di quella solitamente riservata agli estranei, e Bodgan ogni tanto gli diceva qualcosa in una lingua che non capivo. Lo spiavo dalla finestra, a volte uscivo nel parcheggio e tenevo il conto degli scatoloni. Trasportava i pacchi con agilità, mentre i miei abbondanti tentativi di fare conversazione cadevano senza seguito.

«Avevo uno studio tutto mio, e un gatto come questo» continuò. Guardai il suo camion, le pile dei miei scatoloni all’interno, i fantasmi di scatole di altre case, la sua ampia fronte in cui i capelli iniziavano a ritirarsi, e mi domandai se il mio impacciato silenzio di quel momento lo divertisse o lo ferisse. O forse nessuno dei due, era di nuovo al lavoro, ricurvo su un baule molto pesante.

Partì dopo qualche ora. In casa, i corridoi biancastri e spogli diventarono autostrade nella nebbia e pensai a come sarebbe stata la mia nuova vita. Quella notte non presi le medicine e restai sveglia ad ascoltare il canto regolare di un assiolo finché non albeggiò, l’assiolo fece spazio alle gazze e ai passeri, insieme all’arrivo di mio marito. In giornata lasciammo Pisa per Bruxelles, lasciammo una via anonima per Rue du Marais, cioè Via delle Paludi. Nessun sollievo dalla toponomastica del quartiere: la nuova casa si trovava tra Via delle Sabbie e Via della Fossa dei Lupi.

Bogdan ci raggiunse con il suo camion qualche giorno dopo. Pioveva a dirotto, aveva gli scarponi sporchi e fradici ancora prima di iniziare, ma scaricò tutto molto velocemente senza prendere mai fiato. Avrei voluto dirgli «Bogdan, un caffè?» oppure «Bogdan, continua a raccontarmi di quando facevi il dentista» oppure «Bogdan, verresti a dare da mangiare al gatto quando non ci sono?», invece nulla, restai alla finestra a guardare la pioggia torrenziale. Poi ci fu un lampo, Bogdan emise una specie di ululato e mi scappò una risata, e fu allora che mi annunciò delle due scatole in più. Di nuovo non riuscii a replicare al volo, e quando fui pronta a chiedergli spiegazioni, mio marito disse che se n’era andato e che l’aveva salutato anche per me.

Ci fu un altro lampo e poi un tuono che fece vibrare i vetri. Mi misi all’opera: contai gli scatoloni tre volte e mi fermai sempre a centosei. Non capivo. Mio marito mi diede un bacio sulla fronte prima di correre in ufficio e mi disse: «Lascia perdere, ti stava prendendo in giro, sciocchina».

Così come avevo ben pianificato il trasloco alla partenza, così avevo fatto all’arrivo, dedicando le prime settimane ad assegnare il nuovo posto a ogni vecchio oggetto. Tuttavia, molti libri non trovarono spazio nella residente, piccola libreria, la maggior parte delle piante che mi ero portata dietro non superò l’autunno belga, e lo stesso fu per il mio preventivato entusiasmo, su cui avevo fatto affidamento almeno per i primi mesi. Al contrario, mio marito, sempre via per lavoro, sembrava perfettamente a suo agio. Chissà se si era dimenticato della promessa di «ricominciamo insieme, da capo». Chissà se la sua amante continuava a chiamarlo, chissà se io avrei potuto davvero superare le mie ansie e trovare qui un mio posto, un posto migliore dei libri impilati in mezzo al corridoio e già impolverati, chissà una lunga lista di cose, di cose sciocchine, passate in rassegna quasi ogni notte. E poi arrivò l’inverno con le sue nevicate, e una tormenta di rabbia e risentimento sì abbatté su di me. Mi impantanai in un arido bilancio personale e mi sentii vuota come una casa appena saccheggiata da ladri maldestri, quelli che lasciano i cassetti della biancheria aperti con reggiseni e calzini alla rinfusa senza aver trovato nulla di prezioso.

Una notte sognai Bogdan. Cavalcava un lupo in una steppa, senza briglie, aggrappandosi al suo pelo, e i due cercavano di correre attraverso una pioggia di piccole scatole rosse. Mi svegliai con i pugni chiusi e indolenziti, cercai mio marito nel letto ma non lo trovai. Mi alzai silenziosa, lo vidi in cucina al telefono. Smise di parlare, mi guardò come se stesse annegando e, per un attimo che mi sembrò lunghissimo, io non riuscii a respirare. Corsi in camera, chiusi la porta e mi fu tutto più chiaro. Centosei, centosette, centootto. Nessuno dei due era stato in grado di partire lasciando a Pisa il suo peso più ingombrante. Non li avevo pianificati, questi due bagagli.

 

Alice Albertini

Blam

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