Mani: un racconto di Alessandra Lamanna

 Mani: un racconto di Alessandra Lamanna

Illustrazione di Daniela Lamanna

Flavia ha capito adesso, nell’ora di inglese, che la lettera acca sta per «hard», ovvero «duro», e che è per colpa della matita Staedtler 2h, la cui punta non scivola bene sulla carta liscia del libro di grammatica, che non riesce a prendere appunti. In realtà ha la testa per aria per ben altri motivi mentre la professoressa spiega che l’ausiliare «to do» non ci può stare nella stessa domanda con il verbo «to be», che i due sono incompatibili. Qualcuno in classe ha chiesto scherzando: «Come i miei genitori?». E la professoressa ha detto che no, to do e to be neppure ci hanno mai provato a stare insieme. Anche se la compatibilità è una cosa, e l’amore è un’altra, ha divagato poi.

Per Flavia, che ancora non sa, l’amore è la campanella che suona. La sente prima di tutti, quando è appena in crescendo. Con impazienza chiude il libro, sposta la sedia all’indietro manco avesse una molla sotto e, in un baleno, è sulla porta. Per lo stesso riflesso condizionato, al primo trillo anche l’insegnante è in piedi, i passi già nel corridoio avvolti in una scia di profumo dolce di talco e gelsomino. È difficile capire chi fra le due ha più fretta o sentimento.

Entrambe si dirigono al bar della scuola, dove Flavia aspetta Ivan e la professoressa si dà taciti appuntamenti con il collega di matematica. Quando sta con lui, perde il rigore da cattedra, si ammorbidisce dentro la lana della sciarpa sulla scollatura ampia. Una dea mesciata di garbo e seduzione, fintamente inconsapevole, che lascia l’impronta rosso carminio delle labbra sulla tazzina del caffè e trattiene il professore con un laccio invisibile: solo occhi negli occhi.

Flavia li guarda, inosservata, per imparare come si fa. Come si fa a dirsi senza dire, a stare in una bolla come due pesci nell’acquario, muti e nascosti anche se con tutti intorno. Quanta grazia ci vuole, e dove si studia se non sta scritto in nessun libro, per imparare a sfiorare le dita di un uomo come sta facendo la professoressa mentre si avviano fuori dal bar, con una intensità concentrata in un attimo talmente rubato e nascosto che a Flavia sembra di stare lì a fare la spia. Il tocco di una mano dice come è una persona e cosa conta per te, ripeteva suo nonno. Lei ci è cresciuta dentro questo pensiero fino a farne un banco di prova con cui scremare compagni di scuola, cugini e amici del mare. Ma Ivan è fuori concorso.

Quando pensa a lui, lo immagina sotto una pioggia di stelle filanti, qualcosa le si accende nel petto, come un cerino nel cuore che brucia. Le pare persino di avvertire a distanza il lieve afrore delle sue ascelle, che non la disturba come il sudore di suo fratello. Qualcosa vorrà dire se, fino a venti giorni fa, si prendeva una cotta facile per uno sempre nuovo, il tempo di una risata di pancia che si spegneva subito in gola. Ma Flavia non sa se, dando un nome alle cose, queste si avverano o si annientano. Per questo è incerta se dire che è amore, se chiamare compatibilità la convergenza dei gusti sui frappè che hanno consumato lei e Ivan ieri di ritorno da un Friday for future. Si sono scambiati bicchieri e cannucce e le è parso intimo e naturale, lei che a casa fa la schizzinosa se si tratta di assaggiare qualcosa con una posata che non sia sua.

In quel gesto inatteso ha visto un segnale, ha pensato di piacergli così come è, minuta nella sua felpa oversize, dietro la frangia strategica che cade lunga e dritta sugli occhiali per coprire brufoli e imbarazzi. Lui poi le ha persino preso la mano per attraversare la strada e lei, allora, gli ha guardato le vene sporgenti sugli avambracci torniti, ha sentito un calore vibrante, simile a una scossa, al bagliore della spuma bianchissima di un’onda a luglio.

Così calde prima di ieri ha sentito solo le mani del nonno, salde e grandi ma pure soffici, carezze che erano tepore e velluto prima di un bacio in fronte. Erano più che tiepide quando Flavia, ancora piccina, sgattaiolava oltre la porta chiusa ignorando il divieto materno: i bambini non dovevano entrare in quella stanza perché il nonno aveva bisogno di riposare. Lei ci entrava, invece, e cercava le mani del nonno per assicurarsi che fosse lì, visto che non le parlava più. Finché una mattina di strano trambusto, si era infilata nella camera in penombra che però non profumava più della crema alle mandorle dolci usata dal nonno per le mani. Lui non era più sotto, ma sopra le coperte e aveva l’abito buono, quello visto nella foto di nozze dei suoi genitori, anche se ora gli stava parecchio più largo. Flavia gli aveva preso una mano e, d’istinto, l’aveva lasciata cadere, tanto era estranea, rigida e gelata come il marmetto fuori di casa dove posava molliche di pane ai piccioni d’inverno. Era corsa dalla mamma e le aveva chiesto come mai, con l’affanno dei bambini svegli dopo un incubo.

«Quando le persone ci lasciano hanno le mani fredde» aveva detto lei.

Flavia ricorda le mani di Ivan ieri mentre la trascinavano sulle strisce pedonali. Vorrebbe fosse ancora così, per testare l’infallibile teoria del nonno. Ivan entra nel bar, lei gli si affianca, incrocia le sue dita.

«Le tue mani sono ghiacciate» gli dice.

«In classe i termosifoni si sono rotti» risponde lui.

Ma Flavia sa cosa significa, in realtà, quel gelo. Per coincidenza, fuori dalla finestra soffia pure la stessa giornata ventosa di aprile come quando è andato via il nonno.

La campana suona di nuovo, la ricreazione è finita.

E Ivan è già tornato in classe.

 

Alessandra Lamanna

Blam

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