Letargo: un racconto di Giacomo Cavaliere

 Letargo: un racconto di Giacomo Cavaliere

Illustrazione di @satirosfrenato

Ad Alessio Frasson

Voi avete gli orologi, noi il tempo.

Gli arabi hanno i loro tempi, questo lo sanno tutti, dentro come fuori. Non sappiamo come si è guadagnato la sua branda, non è buona educazione domandare i perché, i per come. Saluti, presentazioni, solo l’etichetta che si deve ai nuovi compagni di stanza – non c’è altro modo di chiamare un luogo che serve solo per dormire, e non funziona nemmeno tanto bene. Ha rifiutato il caffè, ma noi l’abbiamo messo su lo stesso; è costume. Ha consumato una Camel in tre tiri, ha chiesto quale fosse la sua branda e si è infilato sotto le coperte. Era aprile, faceva già caldo. E lì è rimasto fino alla colazione successiva, giusto un sorso di caffellatte; il lavorante gli aveva rivoltato metà del mestolo sulle ciabatte senza riuscire a indispettirlo; una sigaretta incenerita con le solite tre boccate, il limite della sua capacità polmonare, e si è rimesso a dormire. Si è alzato per cena, ma solo il giorno dopo. Così il quarto e il sesto, a intervalli d’un giorno di digiuno e riposo per ogni pasto consumato.

Quanto si può essere pigri, s’è chiesto lo spesino che lo vedeva sempre a letto. Le giornate passano, tumulate sotto le x tracciate a pennarello sulle caselle di un vecchio calendario porno. I giorni sono tutti sbagliati, ma novembre ha sempre trenta giorni. Questo qui crede di poterseli passare così dieci anni? Quanto si può essere pigri? Le guardie lo ripetono a ogni battitura mattutina, infilando appena il naso dentro. L’inerzia ha un suo odore. E puzza.

Ormai mangia sempre meno, ma non è un problema nostro. Come preoccuparsi di qualcuno che dorme tutto il giorno; sono le guardie a doversi interessare, ma non è la prima delle loro prerogative. Non ci sono regole che obblighino la gente a stare sveglia. Solo, ci chiediamo come sia possibile che un essere umano riesca a dormire per venti ore al giorno. Questo mese avrà consumato sì e no dieci pasti, senza finirne nessuno; l’altra notte, abbiamo controllato con uno specchietto di plastica se respirasse ancora. La condensa significa vita. Abbiamo comunque chiamato la guardia che ha avvertito il maresciallo del carcere, il quale, dopo attente valutazioni, ha chiamato il medico. E quello, tre giorni dopo, è sceso al braccio da noi.

L’arabo è vivo, hanno verificato, con tanto di elettrodi e coso elettronico per la pressione, ma non è più in grado di alzarsi dal letto.

Non dategli retta, ha detto l’ergastolano ai paramedici, sta solo passando il tempo. Ognuno se li passa come vuole, i suoi dieci anni.

 

Giacomo Cavaliere

Blam

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