La strategia dell’opossum: un racconto di Michele Castelnovo

 La strategia dell’opossum: un racconto di Michele Castelnovo

Illustrazione di Lucia Amaddeo

Le gocce acide di pioggia sferzano senza indulgenza i vetri della finestra: come lacrime scivolano lungo la superficie liscia; si avvinghiano e poi si separano con innumerevoli altre lacrime. È una gialla mattina invernale. Con oggi, sono trentaquattro giorni che Marcello è barricato nel suo appartamento, un misero monolocale all’interno di un vecchio palazzo di corso Lodi.

In quel loculo nel sudest di Milano ci vive da quattro anni, da quando è scoppiata la Grande crisi ambientale del 2025. Per sedici mesi consecutivi la concentrazione di pm10 nell’aria della Pianura Padana è rimasta costantemente sopra ai valori di 435 µg/m³. In quel lasso di tempo la città è collassata. Chi ne ha avuto la possibilità è scappato rifugiandosi nelle valli dove l’aria era ed è ancora vagamente respirabile. Ma in tanti – centinaia di migliaia – si sono ammalati e sono morti come mosche. Gli appartamenti lasciati vuoti sono stati occupati dalla gente come noi, una massa di pezzenti rimasti senza niente dopo la chiusura di tutti gli uffici, i negozi e i bar della città ormai fantasma.

Marcello mi apre la porta ed entro nel monolocale inzuppandogli il pavimento, tanto sono fradicio di pioggia solforosa. Mi racconta che, prima della mia visita, gli ultimi contatti umani li ha avuti con l’unico impiegato rimasto nell’unico ufficio comunale dedicato ai servizi sociali, quello che ogni mese gli lascia l’assegno governativo mensile di cinquanta euro che finisce per intero nella cassa dell’unico supermercato rimasto aperto in tutta Milano. «E Silvia che fine ha fatto?» gli chiedo. «Morta anche lei. Fulminante. Se n’è andata nel giro di un paio di settimane» mi risponde. In sottofondo la voce gracchiante di Lou Reed canta Heroin da un vecchio vinile dei Velvet Underground sopravvissuto chissà come. Non sembra molto dispiaciuto per la dipartita di Silvia; ormai ci siamo abituati alla morte.

Prima della Grande crisi ambientale, Marcello lavorava come receptionist nello studio di un importante logopedista in corso Como. Rimasto senza lavoro, non ha più potuto permettersi l’affitto dell’appartamento in cui viveva, a Cimiano; non certo una reggia, ma quantomeno una casa dignitosa. Alla fine, gli effetti della Grande crisi ambientale sono ricaduti solo sui poveri cristi. Mentre i ricchi fuggivano nelle seconde case, o addirittura compravano interi borghi montani, noi altri siamo rimasti a putrefarci in quello che rimane della città.

Intanto Marcello mi sta raccontando che negli ultimi trentaquattro giorni ha cercato di andare avanti con il romanzo che sta scrivendo da più di due anni. La strategia dell’opossum, s’intitola. Racconta di una ragazza rimasta intrappolata in un antico castello popolato da fantasmi che cercano di ucciderla, ma ogni volta riesce a sfuggirli. Alla fine, però, i fantasmi la intrappolano e allora lei si finge morta come estremo tentativo di salvezza. I fantasmi sono confusi, non capiscono, cascano nel suo tranello e se ne vanno. La ragazza riesce così a scappare dal castello e a sopravvivere. Non è un granché, devo dirlo. Ma Marcello è assolutamente convinto del potenziale della sua storia; chi sono io per distruggere l’unico sogno che gli è rimasto?

«Ti offrirei un po’ d’acqua depurata ma mi è rimasto un solo brick» mi dice, incupendosi. «Dobbiamo inventarci qualcosa per uscire da questa situazione del cazzo.» Quando vado a trovarlo, ormai sempre più di rado, mi dice che tutti noi straccioni dovremmo coalizzarci e ribellarci. «Dobbiamo andare in montagna a caccia di quei figli di puttana. Dobbiamo prenderci le loro case e la loro qualità della vita.» Temo che anche oggi si metta a farneticare di fantomatiche rivoluzioni e già piove merda acida dal cielo; non sono proprio dell’umore per starlo a sentire. «Non volermene ma non mi va di parlare di rivolta anche oggi» gli dico. Non sembra intenzionato a darmi retta. «Qui a Milano siamo rimasti in ventimila. Ventimila disgraziati come noi. Se ci unissimo, potremmo partire per le montagne e prenderci con la forza qualche paesino del cazzo. E se anche per qualche motivo non dovessimo riuscirci, sarebbe sempre meglio che star qua a soffocare in ’sto buco di culo asfissiante.»

Lo so che in fondo ha ragione, ma nessuno sarebbe disposto a seguirlo. Siamo tutti troppo impegnati a sopravvivere in questo grande cimitero per poter pensare di sollevare la testa e unirci. Io per primo. «Senti, non me ne frega un cazzo se non sei in vena oggi, non sei mai in vena» prosegue. «Se a te va bene vivere così, buon per te. Io mi sono rotto i coglioni. In questi giorni che sono stato chiuso in casa ci ho riflettuto e ho deciso che devo passare all’azione.» Vorrei chiedergli che cos’ha intenzione di fare, ma non so se ne vale la pena. «Se vuoi unirti a me io sono contento. Se no io vado avanti lo stesso.» È infervorato, sembra davvero convinto.

Provo a cambiare argomento. «Veramente c’è un motivo per cui sono venuto a trovarti oggi.» Gli racconto l’idea che ho avuto per migliorare la trama del suo romanzo. «Secondo me la tua storia sarebbe molto più convincente se ci fossero delle persone vere al posto dei fantasmi e se la protagonista, quando si trova con le spalle al muro, anziché fingersi morta, morisse davvero. Cioè lei fa come gli opossum, fa finta di essere morta. Ma i suoi aguzzini non ci cascano e la fanno a pezzi.» Dicendola ad alta voce, mi rendo conto anche io che la mia idea è proprio una stronzata. Marcello è distratto, con la testa altrove, non sembra nemmeno avermi sentito. «Vabbè, senti, è tardi e devo andarmene» gli dico. Mi saluta con un cenno del capo, senza proferire parola.

***

«Cortina d’Ampezzo: folle si fa saltare in aria davanti alla residenza del cavalier Rinetti». Incuriosito dalla locandina, compro il giornale con gli ultimi spiccioli che mi rimangono, in attesa che il governo mi mandi la nuova busta da ventinove euro e cinquantadue centesimi di questo mese. Ancora prima di aprirlo, capisco che è di Marcello che si parla. Sono passati quattro anni dall’ultima volta che lo vidi nel suo lurido monolocale di corso Lodi. Nelle settimane seguenti lo cercai ancora qualche volta, ma l’appartamento era vuoto. Finii per convincermi che fosse morto anche lui, come tanti altri. Qualche mese più tardi, seppi da alcuni conoscenti che era ancora vivo e che stava creando una cellula di terroristi.

Apro il giornale, pagina 7: «Ore drammatiche quelle vissute ieri sera a Cortina d’Ampezzo, quando il quarantatreenne Marcello Malatesta si è fatto esplodere nei pressi della residenza del cavalier Gianluigi Rinetti, in località Cianderies. “Credeva che Rinetti fosse a capo di una loggia segreta che controlla le menti allo scopo di mantenere l’ordine sociale” spiegano le forze dell’ordine in seguito alle prime indagini. Per fortuna l’attentato di Marcello Malatesta non ha causato danni a persone o cose». Chiudo il giornale. Il sole verde rancido è alto nel cielo porpora. Alcuni bambini s’inseguono tra le lapidi incrostate di Parco Sempione, sotto lo sguardo assente dei rispettivi genitori. Non piove da quattro anni.

Mi fermo nell’ultima decrepita libreria di Milano. Chiedo se per caso hanno mai sentito parlare del libro La strategia dell’opossum di un tale Marcello Malatesta. «È da un po’ che nessuno ce lo chiede,» mi spiega la ragazza al bancone, sollevando appena la maschera antigas «ma è stato un best seller un paio d’anni fa. Parla di questa ragazza rapita da una banda di malviventi che la rinchiudono in un castello inaccessibile. Per scappare si finge morta, loro ci cascano e pensano che sia morta davvero; allora la chiudono in una bara e la seppelliscono viva. Dopo tre giorni, lei rinasce come fantasma e si vendica uccidendo nel sonno i suoi aguzzini.» Sorrido. Marcello Malatesta, che matto fottuto.

 

Michele Castelnovo

Blam

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