La bambina: un racconto di Elisabetta Giromini

Illustrazione di Elsa Capalbo
La muffa disegna strane figure sul soffitto. La Janara verrà questa notte a sedere sul mio ventre e io sto qui che l’aspetto, che in fondo spartiamo lo stesso destino, io e lei. E l’aspetto tranquilla, estraggo i numeri nell’attesa. Due: ’a Piccerella. C’era una bambina che correva nei campi coltivati a maggese, poi su per i boschi, non si voleva fermare mai. Finché l’odore non pizzicava la gola, annebbiava la testa. Il giallo delle ginestre era l’ultimo segno di vita prima del grigio delle rocce bernoccolute, grigio morte, e i laghetti che ribollono in fondo, senza sosta. Soffioni sulfurei, vortici e gorghi.
Quarantasette, ’o Muorto. Non giocare là vicino se non vuoi fare una brutta fine. Sono i vapori che ammazzano, il veleno che sfiata dalle viscere della terra. Le carcasse degli animali che sembravano dormire, in perfetto stato di conservazione. Appena ho potuto me ne sono andata. Me li ricordo gli occhi gialli di quella pecora. La bambina deve morire. Gli occhi della Janara. M’è tornata a visitare più e più volte da quando te ne sei andata. Ma io la preferisco, la Janara, a quell’altra finta santa delle terre mie. La dea Mefite, la dea della fertilità, della transumanza, in una valle piena di zolfo, zolfo che ammazza. La transumanza dalla vita alla morte, dal giorno alla notte. Fertilità, un ventre vuoto, il desiderio sempre fuori posto. Io e la Janara non siamo capaci di generare figli. Neanche tu. E allora vaghiamo a spiare le vite degli altri. O sono gli altri che spiano la nostra.
Ci abbiamo abitato vent’anni, io e te, in questa casa nel rione; è una casa piccola e umida, l’unica porta-finestra sempre aperta sulla strada tanto la gente entra lo stesso anche se non la vogliamo, mica esiste l’intimità da queste parti, troppe persone e troppo da fare. Le mensoline piene di riviste, ci piaceva guardare i look delle star, in mezzo agli scialli, i santini, le boccette di profumo. Fortuna sappiamo contare fino a novanta, che per campare ci tocca far divertire le signore. È quello che si aspettano da noi: tirare i numeri della tombola, tessere storie col sorriso per Natale, venticinque. Settantatré, ’o Spitale. Ci credevo che potesse durare sempre così, che alla fine era una vita dignitosa, meglio della vita di prima, sotto al lampione. Chillo è nu buono guaglione. Fino a quel controllo, i valori del sangue sballati. M’hai detto che non mi dovevo preoccupare, che dovevi prendere le medicine, e tutto sarebbe tornato normale. La Janara t’era venuta a visitare e tu non me lo volevi dire. Se ne sono andati i capelli, i denti quelli già se n’erano andati, quattro o cinque. Però avevi ancora il sorriso di sempre, hai biascicato l’allegria fino agli ultimi giorni. Ti avevo agghindato la testa con un bel turbante, come Moira Orfei. Quando sei morta è entrata una folata di vento dal vicolo fino a dentro alla casa che sono sbattute le ante della porta-finestra. L’ho capito che me lo volevi dire che te n’eri andata, che adesso mi toccava arrangiarmi da sola. ’E ddoie zitelle. Ci facevamo due risate quando usciva il sessantasei. ’E ddoie zitelle che si amano, che pure noi abbiamo il diritto all’amore, me lo insegnasti tu quando m’offristi la sigaretta, sotto al lampione che piovigginava. Era l’amore vero quello fra me e te, maledetta che sei morta prima. Che m’hai lasciata dopo una vita. La mia Mefite, il passaggio tra la notte e il giorno, il maschio e la femmina. La dea mia coi tacchi a spillo, le zizze rifatte e il rossetto rosa talco, gli occhi di zucchero.
Da quando sei morta mi stendo la sera in quello che era il nostro lettuccio, bacio la tua fotografia, la stringo sul petto e guardo la muffa sopra al soffitto. Non ci riesco a spegnere la luce, mi fa paura stare al buio da sola, e aspetto la Janara con gli occhi spalancati. Tanto lei non si fa vedere, ma lo sento il peso sopra al petto, gli occhi gialli che mi fissano e mi manca il respiro. Mi manca il respiro e nelle narici ho la puzza di zolfo. L’acqua grigia mi chiama, la pozza ribolle, e il ciciniello che tengo in mezzo alle gambe si rizza. Lo vedi che a volte ancora funziona, quando non ha motivo di funzionare. La bambina la devi sacrificare. ’A Piccerella la tira mio padre per un braccio, quelle mani ruvide di uomo di fatica. La vedi la pecora con gli occhi gialli. La strattona quella bambina mio padre, l’odore è forte, di uovo marcio, d’inferno, e bruciano gli occhi, la gola brucia io non lo so per quanto riuscirò ancora a respirare. Mostra le gengive, la pecora, è come ipnotizzata. Gli occhi del colore delle croste di roccia tutto attorno. Quel vapore di morte che attrae e poi immobilizza, asfissia. Adesso la bambina la devi lasciare andare. E io guardo la pecora negli occhi, siamo vicine. Mio padre non mi lascia il braccio, mi spinge in ginocchio sopra alla pecora, la faccia mia sopra la sua. La bambina deve morire! Hai capito? Mi sono accasciata a terra, volevo abbracciare la pecora, restare lì con lei. Le forze non ce le avevo più.
Anche adesso vorrei sbattere gli occhi, vedere di nuovo il viso di mia madre mentre mi rimbocca le coperte e dice È nu buono guaglione. Lo dice a mio padre, lo dice a me. È nu femminiello. E non ci sta niente di male, pure un femminiello si merita l’amore. Non in questa casa. E fortuna t’ho trovata, compagna di una vita, e con te la mia casa, una casa piccola e umida, che la gente ci cade dentro, che è un tutt’uno con la strada. Una stanza sola però c’è tutto, i tuoi vestiti, i tuoi profumi, le scarpe col tacco, la bigiotteria. Ti ho soprannominata Mefite per scongiurare la paura, la dea Mefite non uccide con le sue esalazioni, ma accompagna. Ritorno a guardare la tua foto e ti do un bacio, di quelli lunghi di gioventù. Ho chiuso per bene la porta-finestra e ho lasciato acceso il gas. Già si chiudono gli occhi. Sono presto da te.
Elisabetta Giromini