Kelvin 451: un racconto di Lorenzo Vacca

 Kelvin 451: un racconto di Lorenzo Vacca

Illustrazione di Davide Amidoni

Il vecchio sta sdraiato sul lettino bianco con le barre alzate, che non cada innanzi agli infermieri, e legge il giornale, anche se in effetti è quello di sei giorni fa. I giornali in ospedale, e pure i libri, ben inteso, è facile che siano vecchi e pure che trasportino un altro tipo di messaggi, vale a dire cariche virali e pure batteriche che recano epistassi, anafilassi, piressia ed epilessia. Ciò causa, come è ovvio, complicazioni gravi, ma le operatrici non sembrano badarci troppo, e in effetti poco fanno per salvaguardare l’armonia in ambulatorio in quei giorni del mese, vale a dire i più caldi.

 

Il vecchio bagna il dito per voltare pagina come i suoi coetanei. Tolto dalle labbra, il dito è ruvido e più largo del normale, quasi dilatato o ingrassato di tabacco, grappe e caffè vecchio. Il caffè vecchio non si compra più, quello che c’è lo si deve far bollire per un po’. Si mescola il caffè raccolto dalla moka usata con un po’ di foglie di tabacco spremute dalla sigaretta tenendola in verticale. Per finire, una lumaca viva viene lasciata a suppurare, piena di sale, nel bricchetto della moka per una notte intera. Quando, la mattina, la si lascia a marinare nella bevanda per quaranta secondi, la lumaca si trasforma da crisalide ammuffita a una protuberanza grigio bruna e tutta bizzosa, e il resto della schiuma dà corposità al composto.

Il dito del vecchio è la lumaca, dopo la sua bocca, e dopo la moka, e, come le antenne, si ritira nella mano, un secondo e poi due, poi pop, che torna su, vigile e tremulo, scosso da una vibrazione, ma quelle appendici, proprie delle limacce, sono tre e su ognuna un occhio, mentre si ritira, strizza e ammicca e guarda l’infermiera – è sicuro che, se riesce a sporgersi ancora per un poco, potrà raggiungerla sotto la campana, quella bianca, e la divisa è demodé, ma non ci si lamenta.

 

Macchie scure sopra il letto. Non gli capitava dai sei anni. E d’accordo, dai quattordici. E però non è quel posto ch’è la fonte, ma molto più a ovest, a sud-ovest, sì in effetti suda molto, tanto, tanto che gli pare stia sfriggendo dal suo corpo. Anche la flebo fa le bolle e fischia, fischia, ma come si permette questo stronzo tiè, che parte un ceffone non ci son più i vecchi di una volta. La bottiglia fa le bolle, è un pericolo in effetti, e forse ci sarebbe da chiamare aiuto, non ci vede bene, qual è la sua temperatura? Scosta la coperta e pure il lenzuolo, è fradicio e di sotto macchie, macchie dappertutto, sui calzoni, la maglietta, le lenzuola, e pensa da piccolo tutta la vergogna che provava per la mamma, le macchie che non venivano mai via. Allora, non contento, aveva tolto il telo e lo aveva messo all’incontrario, e poi quando la mamma era entrata per svegliarlo: «Mamma guarda, sono anch’io una signorina!».

 

La signorina che gli sta davanti armeggia con le cose, non sa come si chiamano gli affari che una volta erano punture solo con siringhe e ora sacchetti, tubi, cavi, bip e gluck. Uno dei bip ce l’ha sul dito, serve per il cuore, ma che lo sappia lui e il medico no, che il cuore si trova nel petto e non nel dito è inaccettabile. Lo toglie. Sotto, il dito si è gonfiato come l’altro e ora lo guarda con due occhi, gli stessi occhietti piccoli e fissi e trasparenti di quell’altro, uguali agli occhi dei molluschi che odiano il sale. C’è un altro dito che dovrebbe controllare, ma sta dentro a un guscio bianco, e a dirla tutta, non è che ne abbia tanta voglia. Gli sembra appiccicaticcio, come una banana masticata da un bambino, dappertutto sparsa e sporca e giallognola, con le strisce che colano giù sotto al perineo e poi più sotto, il solletico va fino al fesso.

 

Sta pensando di accendersi una sigaretta, il vecchio, giusto per far scattare l’antincendio, attirare tutti e poi vedere se un malato vero può anche respirare senza aiuto e stare male uguale. L’indice sul labbro, il pulsometro ha lasciato un segno forte, è tutto schiacciato, poi, si è rotto? Non è più indice comunque, sarà un limacciolo. Le antennine fan su e giù tra le due labbra e a lui pare, in un angolo della visuale, di vederci rosso, è forse una vista secondaria che si sta attivando?

La sigaretta l’ha bagnata di sudore, si accenderà? La scuote, evapora e poi secca. Ha dimenticato l’accendino! E poi fa clic con l’altra mano, e succede il fatto.

 

Chi le dà il permesso, a lei, di mettersi a fumare?

Ma che cazzo fa? È impazzito?

Ci son pazienti con l’ossigeno!

Tutti incazzati, stasera, che, non mi si porta mai fuori, non un cenno una diagnosi per questa febbre?

Ma chi le dà il diritto, come si permette, via di qua!

 

Il barelliere convocato è alto, largo e duro a sufficienza per rivoltare anche il pelato che fa i film con quelle macchine, non bada certo a qualche scottatura quando prende per il bavero il vecchio decrepito – non a caso crepita nel fuoco della febbre –, lo adagia su un lettino di metallo, come quello per i morti, e gli dà un calcio come al rugby, tanto le porte erano aperte.

 

Sulla strada non c’è traffico che è notte, poche curve e tanto basta piegarsi un poco a destra e a manca per virare come i bob. La pelle gli tira, sarà che con le fiamme è più sensibile al vento. Intanto attraversa il paesino, via periferia, poi le discariche poi la campagna, finalmente, in mezzo ai grilli e alle cicale che un suono più bello lo devono ancora inventare. Se fosse in un film ci sarebbe lì a due passi una comitiva con una chitarra dietro a bere e a cantare, ma non è. Spaventapasseri, di un altro tipo, ingrigiti, sporchi e curvi, che fanno paura perché rappresentano, per quanto piccola, una probabilità nel futuro della gente. E quei figuri, tra cagnetti, merda, sigarette e San Crispino giù dal Famila, si accocchiano, stendono le mani. Per scaldarsi e nient’altro.

 

Lorenzo Vacca

Blam

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