Come ci si rapporta con chi ha una malattia mentale? «Il mio amico Nick» è il racconto di Mattia Guzzi

 Come ci si rapporta con chi ha una malattia mentale? «Il mio amico Nick» è il racconto di Mattia Guzzi

Illustrazione di Elena Beatrice

L’anno in cui il mio allenatore di basket si uccise, Nick iniziò a uscire di testa. Da principio notai un modo di fare straordinario rispetto al Nick che conoscevo. Una sera per esempio eravamo a bere al Centrale e mi chiese scusa. Scusa per tutte le volte in cui aveva fleartato con Bea. Anche se mai ne avevamo parlato, lui lo aveva capito che non mi faceva troppo piacere. Scuse gratuite, inaspettate. Era un qualcosa di strano e imbarazzante ma anche di bello. Un amico di una vita che chiedeva scusa su un nostro non detto. Un bel momento. Quella sera parlammo come mai avevamo fatto. Eravamo immersi in quel sentimento particolare che si crea quando si parla con sincerità. Quella bolla di struggente presente che abbraccia ogni cosa. Filosofeggiava, Nick. Diceva che voleva capire meglio alcune cose di sé e che avrebbe chiamato il nostro vecchio prof di Filosofia per farsi consigliare alcuni libri. Malato di pensiero non lo era mai stato in realtà, ma lì per lì, in quel dolce stato emotivo, non ci pensai più di tanto.

Mesi più tardi mi arriva la notizia che è uscito di testa. I medici dicono che è in psicosi acuta. Un pazzo. Così. Io non ci credo. Lo andiamo a trovare e mi sembra normale. Lo troviamo sul divano di casa sua che gioca alla play. Siamo tutti tesissimi, lui invece è tranquillo. Dice che a volte sta un po’ male ma che ora è lucido e poi, pochi minuti dopo, mi guarda fisso negli occhi e mi dice che io lo posso capire. Non so a cosa si riferisce, sono spaventato. Ho paura che ciò che mi hanno detto possa essere vero. Lo guardo con una certa attenzione. Non mi pare di vedere nulla di pazzo in lui. Deve solo stare in casa per qualche tempo e riposarsi. Così lo andiamo a trovare tutti insieme una volta a settimana. Gli hanno dato da prendere delle medicine. Dei regolatori di umore. I medici dicono che è in una situazione delicata. La psicosi acuta è a un passo dalla schizofrenia e superato quel labile confine che divide la vita quasi pazza da quella pazza difficilmente si torna indietro. Bisogna stare attenti.

Un pomeriggio siamo a casa sua e ha la prima crisi. Inizia parlottando di cose incomprensibili, di gente che lo vede, che lo cerca. Si agita. Urla. Non capisce dove si trova. Si lancia di corsa sul balcone e minaccia di buttarsi. Casa sua è al piano terra. Io sono in allarme, non lo riconosco. Mi sembra drogato o qualcosa del genere, ma non è per le droghe che sta così. Questo pensiero mi spaventa ancora di più. Alla fine chiamiamo l’ambulanza e lo sedano. Non lo portano neanche in ospedale, non fanno niente, non possono fare niente. Bisogna aspettare e farlo riposare. Sua madre ci dice che sta andando da uno psicologo. Sembra che non abbia digerito come si deve alcune cose. Ci sono pensieri che non tutti metabolizzano, pensieri che, se non assimilati a dovere, sono letali per la mente come lo sono stati per Nick. Mi sembra assurdo. Passa qualche settimana e non ha più crisi. La situazione si è assestata. È ancora un po’ strano ma non smatta da settimane. Lo portiamo in discoteca con noi. Io sono un po’ scettico sulla cosa ma la madre ci rassicura, vuole che esca, che ritorni a un po’ di vita normale. Quindi lo portiamo. Lui è come in trance, fissa il vuoto e sorride. Non parla molto, ma forse un po’ di svago lo può fare stare meglio. E invece no. Perché neanche facciamo in tempo a entrare che già urla. Urla che ha sete, che deve bere, urla che se non beve subito muore, lì, sull’istante. Qualcuno di noi va al bar per prendere una bottiglia d’acqua. Diventa violento. Le persone iniziano a guardarci male e si avvicina il buttafuori. Cerchiamo di fargli capire che è tutto ok e che adesso gli passa. Cerchiamo di fargli capire la situazione ma noi abbiamo vent’anni e lui è un buttafuori. Nick lo insulta. Parte il delirio. Il buttafuori ci caccia. Alcuni miei amici si incazzano. Fuori dalla discoteca si avvicina la polizia. Litigi forti. Scontri. Io sono con Nick, che si è calmato. Guardo assieme a lui la scena. È davvero un disastro. Mi dice che gli dispiace. Neanche ci faccio caso ma poi me lo ripete. Mi dispiace, mi dice, non so cosa mi succede. È affranto. I suoi occhi sono quelli del Nick che conosco e si stanno riempiendo di lacrime. Mi sento tristissimo anch’io. Nick, ma che cazzo ti succede?, vorrei dirgli. Vorrei scuoterlo, urlare, vorrei obbligarlo a guarire, a essere normale. Porcodio se sono incazzato. Ma non gli dico niente. Lo guardo con pietà e gli metto una mano sul braccio. Tra, gli dico, nulla di più.

Siamo tornati a casa mezzi incazzati e mezzi scossi quella notte. Non avevamo più una traccia di alcol in corpo. C’era un silenzio strano al ritorno e un’inopportuna rabbia verso Nick, una rabbia sommessa. Dal finestrino di dietro guardavo la strada sfrecciare. I soliti campi, il solito buio. In cielo c’erano le solite stelle dell’estate, quelle luminosissime che ti fanno sentire breve. Di fianco a me anche Nick guardava fuori. Mi chiedevo a cosa pensasse e quando si sarebbe ripreso. Se si sarebbe ripreso. Poi si è girato verso di me. Ci siamo guardati per qualche secondo, mi ha sorriso. Sembrava felice, nonostante tutto. Quella notte è stata l’ultima volta in cui l’ho visto normale.

 

Mattia Guzzi

Blam

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