I labirinti del borgo – Episodio 2: “Signora dei vicoli scuri” di Marco Masciangelo (Spazinclusi)

 I labirinti del borgo – Episodio 2: “Signora dei vicoli scuri” di Marco Masciangelo (Spazinclusi)

Illustrazione di Francesca Galli

Passo destro, passo sinistro. Respiro, mi guardo intorno ma non rallento. Passo destro, passo sinistro. Non mi volto a vedere se ci sei ancora, spero di averti seminata. Passo destro, passo sinistro. Come quando facevo meditazione, devo pensare a cosa sta facendo il mio corpo. Passo sinistro, passo sinistro. Cazzo, mi sono sbagliato inciampo, avanzo un paio di passi e per mantenere l’equilibrio allargo e muovo le braccia. Alzo troppo una mano e senza volerlo premo il pulsante sul cappello che accende le lucine e fa partire la musica. Trovo un lampione, mi ci aggrappo facendo cadere un addobbo natalizio. Chi se ne frega, il borgo medievale è il posto meno adatto alle feste che abbia mai visto, mi piace anche per questo. Le case sembrano essere state costruite una sull’altra, minuscole e coi muri di pietra. Ci vuole coraggio a viverci.

«Jingle bells» continua a uscire dal mio cappello e le sue note si insinuano tra le vie strette. Non la sopporto più. Grido e mi colpisco alla testa finché non becco il punto giusto e torna il dannato silenzio di cui ho bisogno.

Svolto a destra, quasi tutte le persiane sono chiuse, nonostante sia mezzogiorno, bella la gente poco impicciona, mica come te che continui a torturarmi. Accelero il passo e mi volto per controllare dove sei: sempre alla stessa distanza, maledetta.

Davvero non ti mancano i tuoi studenti? Chissà se senza di te hanno pubblicato qualcos’altro ti avvicini e mi sussurri all’orecchio. Fingo di non sentirti.

Ai bei tempi un posto come questo l’avresti trovato noioso dopo dieci minuti insisti.

I bei tempi sono finiti quando sono voluto scappare dalle parole. Quelle degli altri mi stringevano la testa e mi impedivano di pensare, le mie mi strozzavano la gola e mi toglievano il respiro.

Accelero il passo ma tu non mi lasci in pace nemmeno oggi, svolazzandomi intorno.

Magari esageri mi rispondi.

Ma cosa ne sai, tu mi avevi già mollato da anni. Perché sei tornata a torturarmi? Non riesco a liberarmi di te. Colpisco un muro, non troppo forte da farmi male. La calce rinsecchita si sgretola e scivola giù. Signora dei vicoli scuri, vattene!

Ancora con questa tua fissazione di citare le canzoni? Ho un nome, usalo.

No, lo voglio dimenticare il tuo maledetto nome!

Scuoti la testa e mi superi. Ora conduci te, voglio vedere dove vuoi portarmi. Indossi la maglia gialla che mettevi al mare e i jeans scoloriti di quando ci siamo lasciati. Occhi neri, capelli neri. Signora scura dei vicoli. Ti vengo dietro per queste vie sempre sporche di polvere e sassi e buste di plastica, svolti a destra, ancora a destra, sali i gradini, poi a sinistra. Ancora mi perdo anche se è un po’ che mi nascondo in questo paese. L’ultima casa però la riconosco sempre. È diversa dalle altre, si prende il suo spazio, ha addirittura un piccolo giardino e un balcone al primo piano. In un paese di muri e tegole, questa invece ha il tetto di legno. Ha personalità. Appena dopo il cancello dell’ultima casa, il cemento sgretolato è sostituito dalla terra e inizia il bosco.

Una notte che gironzolavo, mi ero perso per l’ennesima volta, ho visto uscire proprio da questa casa un uomo, mica si capiva quanti anni aveva né l’avevo visto mai per San Bartolomeo, ma aveva una faccia e certi occhi…. Però, me lo ricordo benissimo, sai, come tu gli hai girato le spalle che sembrava che gli occhi di ghiaccio del tizio ti avessero provocato un gran dolore. Non si era accorto di noi, camminava leggero, sicuro, sapeva esattamente dove andare. L’ho seguito con lo sguardo per qualche istante, attratto dalla sua solennità. E poco dopo è scomparso tra i vicoli. Non l’ho più rivisto. Chissà chi era, chissà dove andava.

Dove mi vuoi portare? ti chiedo, Non ho voglia di stare solo con te.

«No!» mi giro e me ne torno indietro.

Arrivo alla piazza. È chiusa per lavori. La piazza tanto voluta dal sindaco. La aprono il giorno della vigilia. Mi piaceva fermarmi a dormire sulle panchine, era più comodo che per terra. Mi avvio verso le scale e scendo. Questo paese è fatto a livelli. A quest’ora tutti mangiano tranne me, sento le posate battere sui piatti. Ho fame, sì, ma non mi manca niente della mia vita di prima, di quando mangiavo seduto a tavola e dormivo sui letti veri. Però io sono più contento anche nelle notti con la luna.

E lo sarei ancora di più, se non ci fossi tu.

Quanto ti piace raccontare questa bugia? Senza di me saresti solo.

Ero felice prima che tu arrivassi, quando non avevo più bisogno di parole. Mi fermo davanti al bar Sottomonte, dove c’è una piccola aiuola ed è più morbido per il mio riposo. Appoggio le spalle al muro e mi godo il sole. Giulia sta servendo ai tavoli e Guido, l’unico assicuratore di San Bartolomeo – che non ho capito cos’ha da assicurare in un posto come questo, ma vabbè – è appena entrato nel bar.

E aspetti la tipa del bar per fargli pena, come tutti i giorni a quest’ora.

«Comwee…»

Cazzo, mi stavi per fregare, voglio farmi passare per uno straniero. Come ti permetti di insinuare che me ne approfitti? Basta, non voglio più vederti, chiudo gli occhi. Non mi ero reso conto di quanto le palpebre fossero pesanti.

 

*

«È tedesco, dai. Si vede dalla barba.»

Parole confuse, arrivano forse dal mio sonno, forse da un altro pianeta.

«Ma fatti gli affari tuoi, Guì.» Voce di ragazza. Giulia del bar, sicuro, riconosco la sua voce gentile.

«No, dico solo… vedi come sono furbi i tedeschi? Si tengono quelli migliori e ci mollano ’sta feccia e noi ci pigliamo tutti, proprio scemi!» Apro gli occhi, ci metto un attimo ad abituarmi alla luce. La faccia pallida e molliccia dell’assicuratore si mette a fuoco, i suoi occhiali lampeggiano al sole. Faccio finta di non capire, ma quante gliene darei.

«Se lo dici te, Guì…» Giulia sta sistemando i tavolini fuori, a pochi metri da me. Guido come al solito le sta più appiccicato di quanto dovrebbe. Anche stavolta evita di toccarla. Secondo me non l’ha manco mai sfiorata la mano di una donna, a parte forse quella di sua madre.

Ha una voce nasale, mi indica. «E poi guarda quel cappello, vai a sapere a chi l’ha rubato. Li vendi tu quei cosi natalizi, o sbaglio?»

Io ti vedo all’improvviso dietro di lui e scegli di mostrarti tutta nuda. Non posso credere ai miei occhi, ma come ti è venuto in mente?

Giulia aggrotta le sopracciglia. «Ma che rubato! Sempre a pensare male, gliel’ho regalato io.»

Tu, signora dei vicoli oscuri, ti avvicini all’assicuratore, gli sfiori il completo grigio. Non ce la faccio, mi viene troppo da ridere. Se ti vede quello sviene.

Se mi vede si fa una sega, te lo dico io.

Sei volgare, non hai mai parlato così quando eri vera.

E invece andavo in giro senza vestiti?

Guido continua a lamentarsi: «Ma tu lo sai che hanno tolto le panchine da piazza dell’Immacolata per evitare di farci dormire proprio i barboni come a quello, bella cosa no?». E poi: «Ma che gli prende a quel coglione, ci sta sfottendo per caso?».

Loro ti ignorano, come se tu non esistessi. Ma io continuo a ridere, non ce la faccio più.

Giulia fa un passo indietro, per aumentare la distanza con l’assicuratore: «Dovresti essere contento! Guarda come ride alle tue battute».

Tu apri le gambe e fai gesti volgari in direzione di Guido.

Sei sicuro di volermi rifiutare ancora? Guarda come ti faccio divertire!

L’assicuratore mi guarda strano: «Ci aspetta proprio un bel ventiquattro dicembre, con un barbone alcolizzato come Babbo Natale, bello proprio!»

Fisso il tuo corpo, non mi diverto più. È perfetto. Quel seno così dritto non l’hai mai avuto. E anche quel culo, ti sarebbe piaciuto! Mi manca la vera te, l’accenno di cellulite sotto le natiche e il neo grande sulla spalla.

Sono come mi hai sempre voluta.

Io invece voglio che vai via. Vattene. Vattene.

«Ua-e-eeee!» grido con tutta la rabbia.

Guido mi fissa spaventato, Giulia curiosa. Tu mi ignori.

«Beh, ogni tanto qualche cambiamento ci vuole» aggiunge Giulia. Rimango in silenzio, prendo respiri lunghi.

Guido guarda prima me, poi Giulia: «No. Era meglio quando tutto era uguale. Magari ci torneremo».

Nel suo tono qualcosa mi disturba, agito la mano davanti al volto per allontanare le sue parole. Si volta verso di me: «Tu non mi freghi, tanto lo so che capisci quello che diciamo».

Faccio uno sguardo da ebete. Tu, sempre nuda davanti a lui, gli sputi sul viso. La tua saliva lo attraversa e cade sul cemento del marciapiede. Come se avesse avvertito qualcosa, Guido si alza e se ne va senza salutare, mentre Giulia rientra nel bar.

È colpa tua, fai sempre scappare tutti. Non vali niente.

Non è vero, infatti Giulia esce di nuovo e torna da me.

«Questo è avanzato e buttarlo non mi va» mi allunga un panino al prosciutto che afferro, avido «e questa è perché mi hai tolto quel deficiente dalle palle.»

Mi lascia anche una Peroni da sessantasei per terra, vicino a me. Le sorrido e me la scolo in un sorso. Lei torna all’ingresso del bar, sta arrivando quel ciccione del sindaco, stronzo!, mi ha tolto le panchine per dormire, lui e i suoi lavori del cazzo. Ed eccolo, Umberto, che lo segue come un cane, con il pizzetto in ordine e lo sguardo da idiota, e è uno dei pochi di quelli che vivono nelle villette nuove che non mi tratta da schifo Tutta ’sta cosa di andare appresso al sindaco gli sta dando alla testa: ultimamente se ne va in giro e dire a tutti «vedrai, vedrai», ma «vedrai» di che, poi?, vallo a capire.

Torno alla mia Peroni: quando sono fortunato l’alcol ti fa scomparire per un po’, ma questo è un giorno sfortunato. Almeno ora sei vestita con la minigonna di quando ci siamo conosciuti e hai il taglio di capelli della nostra vacanza in Sardegna.

Rossa eri parecchio fica, tocca dirlo.

Il panino è durato troppo poco.

Ci sei venuto apposta!

Zitta, appena riesco mi metto in piedi, tu resta qui a tenermi il posto, mi vado a fare un giro.

La bottiglia la getto nel cassonetto vicino l’uscita di servizio del bar e salgo le scale vicine. Ho voglia di tornare nella parte alta, dove è come stare da solo, con tutte quelle persiane chiuse. Deve essere un giorno feriale, oggi. Non gira nemmeno un turista.

E di nuovo passo destro, passo sinistro. Adesso è più difficile, dopo essere stato seduto a terra tutto quel tempo barcollo un po’. Salgo le scale, sto sudando.

«Alla faccia dell’estate indiana, siamo al natale indiano» aveva detto l’altro giorno il sindaco all’uscita della chiesa. L’ho visto che si riferiva a me, ché mi ha guardato schifato.

Potevi dirgli chi eri, vedevi come se la faceva sotto.

Ti lamenti, ti siedi per riposarti. E per farmi vedere ancora di più quelle incredibili cosce.

Io non sono più nessuno, ho lasciato tutto. Società, pazza e profonda, spero non sarai sola senza di me.

Passo destro, sinistro, mi infilo in un vicolo così angusto che devo girarmi di lato per passare.

Ridi. Non ci credi, stronza?

Ci crederei di più se gettassi via il cellulare, ce l’hai sempre in tasca. Quello con tutti i numeri dei tuoi amici.

È scarico da tempo, ormai sono solo e mi sta bene così.

Devi solo ricaricarlo. Perché non lo butti se ne hai il coraggio?

Sto per risponderti per le rime, chi se ne frega se mi scoprono, ma Alfredino sbuca da un cancello. Quando passa davanti al bar abbassa lo sguardo e non parla mai con nessuno. Il sindaco dice che è il pronipote di Rosa, la vecchia più vecchia del paese.

Non voglio spaventarlo più del dovuto. Quando si accorge della mia presenza si ferma a guardarmi. Gli sorrido, indietreggia. Ha quegli occhi enormi che ti fanno sentire sopra un palcoscenico.

Eri bravo con i bambini, mi giudichi.

Gonfio le guance e ondeggio con il collo e la testa, il piccolo sta per urlare. Strabuzzo gli occhi e soffio via tutta l’aria trattenuta. Ride. Ha una bella risata, è la prima volta che la sento. Quel suono cura qualcosa dentro di me. Forse è stato un bene tenersi il telefono, chi lo sa. Mi saluta con la mano e corre via. Mi sento più leggero, anche se l’effetto dell’alcol è scomparso da tempo.

È ora, mi afferri la mano senza toccarla.

Vieni con me, insisti. E stavolta ti seguo.

Sono troppo leggero per arrabbiarmi, per contrastarti. Superiamo file di persiane chiuse e di porte sbarrate. Ritorniamo alla fine del paese, dove il cemento lascia il posto al terriccio e non arrivano neanche gli addobbi di questo ennesimo Natale di merda.

«No.»

Uso la voce vera, ma continuo a camminare. I passi si attutiscono, il silenzio del bosco è diverso da quello del paese, più profondo. Cammini come se sapessi dove andare, percorri sentieri segreti che conosci solo tu. Ti sto dietro, ma non vorrei perché ho paura. Gli alberi attorno a noi sono testimoni silenziosi. Ogni tanto scuotono i loro corpi col vento, suggerendomi di lasciar stare. Ma ormai seguo te.

Non so se saprò trovare la strada del ritorno.

Marco Masciangelo

 

Signora dei vicoli oscuri fa parte del progetto di racconto condiviso I labirinti del Borgo realizzato con le riviste Spaghetti Writers, Spazinclusi e Bomarscè.

4 racconti scritti da altrettanti autori in un’ambientazione comune con personaggi diversi che, alla fine della storia, avranno qualcosa in comune. Ogni autore ha inventato la sua storia partendo dal Borgo di San Bartolomeo (nome di finzione) e facendo muovere i suoi protagonista in maniera autonoma e lasciando, poi, al caso di farli incontrare in un posto comune con i protagonisti degli altri racconti.
A questa pagina trovate gli altri episodi del racconto condiviso.

Buona lettura!

Blam

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