Cosa c’è di più difficile della gratitudine da esprimere a parole?: «Grazie» è il racconto di Nicole Trevisan

 Cosa c’è di più difficile della gratitudine da esprimere a parole?: «Grazie» è il racconto di Nicole Trevisan

Illustrazione di Elena Beatrice

I bambini hanno suonato il campanello una sera sì e una sera no, dal quindici dicembre. Tra le diciannove e le venti, accompagnati da adulti in mantello e cappello da Babbo Natale, genitori putativi o reali, non è dato saperlo. Sempre stonando Tu scendi dalle stelle o qualcosa del genere. Uno di loro, il più piccolo – strumento di corruzione prescelto, forse perché dotato di orecchie da elfo naturali –, tendeva un cestino foderato di velluto per raccogliere le offerte.

Nina ha ceduto ogni due sere, dal quindici dicembre. Le piace sentire il gemito del vecchio citofono, i passi frenetici nell’androne. Un euro, non di più. Era il gesto che contava, l’aveva rassicurata uno dei presunti adulti. Sorridendole. Lei aveva tentato di rispondere e forse ci era riuscita. Non ricorda. Forza la memoria su quei momenti e non ottiene risultati certi. Ha l’illusione del suono della propria voce all’orecchio e nel cervello, non quella dei volti dei bambini che si ritirano, cinguettando al freddo, soddisfatti della sua gentilezza – quello è certo. La voce se l’è tenuta dentro, forse si è limitata ai cenni, alla mano sollevata, alle dita a ventaglio. Vorrebbe provarci un’altra volta, a cavarsi fuori dalla gola quel: grazie.

«Tanto difficile da dire?»

Alma l’aveva provocata dal suo lato del divano, l’altra sera. Distesa, senza alzare gli occhi dal cellulare. Riesce a fare due cose insieme anche se dice di no. Oggi siede nello stesso punto. Non si è mossa dalle due del pomeriggio, guarda Squid Game e del Natale non gliene frega un cazzo. Ha lasciato che Nina pensasse al cibo e si è intromessa solo per lamentare l’aggiunta di cannella ai fagioli in umido.

«Mi gonfiano, cazzo. Se devi farli, che siano almeno mangiabili.»

Era sempre stata la madre a occuparsi del pranzo di Natale. Quest’anno avevano (Alma aveva) deciso di stare per conto loro, nell’appartamento che hanno preso in affitto. Per rendersi indipendenti, mantenersi da sole. Avevano fatto la spesa al discount e deciso che sarebbe andato tutto bene. Anche se nessuna delle due l’aveva detto all’altra. Nina aveva replicato punto per punto il menù con cui si ingozzavano ogni anno da quando avevano messo i denti. Alma non aveva commentato, tranne che per l’appunto sui fagioli. Forse non si era nemmeno posta il problema di mangiare qualcosa di diverso. Non l’aveva preso in considerazione. Del resto, hanno lo stesso palato abituato ai sughi esausti da ore di cottura, alle patate impregnate d’olio fritto.

«Che fai?»

Alma mette in pausa. È stata lei a regalarle il maglione che ha addosso, con sopra un pupazzo e fiocchi di neve. “E svecchiati un po’, Ninetta mia. Vanno un sacco di moda, non lo sai?”, le aveva detto, e aveva riso di lei come ride dell’appartamento spoglio, assemblato con mobili usati e decorazioni trafugate dalla casa di famiglia. Anche ora, pensa Nina, sta per ridere di lei.

«Stasera quelli del coretto se ne stanno a casa, è inutile che aspetti.»

Non hanno abbandonato le reciproche posizioni. Sul divano e davanti alla finestra. Nina fissa il buio appannato oltre il vetro, superando il filo di luci mezze cieche che lo incorniciano. Cerca tra le auto parcheggiate.

«Sono bravi bambini quelli, staranno aspettando i regali, la nascita di Gesù, i tortellini. Mica escono, la Vigilia.»

Forse è solo il suo modo per convincerla a occuparsi dei fagioli o di invitarla a seguire insieme quella puntata di Squid Game, con strana gente in tuta che usa uno spillo per staccare da un biscotto rotondo una sagoma a forma di stella. È un lavoro di precisione, devono incidere il contorno punto per punto. Se sbagliano e il biscotto si spezza, muoiono. Nina aveva capito il funzionamento del gioco dal riflesso della tv sulla finestra e aveva sussultato al suono del primo sparo. Anche se sapeva che al loro posto non avrebbe sbagliato, sarebbe uscita viva. Lì nessuno avrebbe trovato strano che non parlasse. Dovevano sopravvivere e basta.

«Secondo me di là sta bruciando qualcosa. Non senti l’odore?»

Alma dice qualcosa e non la ascolta, le sue parole si attaccano alla condensa e scompaiono. Pensa al telefilm, che se fosse stata lei a giocare e a vincere, avrebbe dato tutti i soldi del premio ai bambini che cantano la Chiarastella. Erano così carini, audaci ed entusiasti, a suonare alle porte di sconosciuti. Nina vorrebbe avere la loro età. Imparare almeno a cantare.

«Nina. Le cose sul fuoco.»

Sua sorella non è più seduta, è in piedi. Non sta ridendo. Quando sente il suo nome, lenta, si volta verso di lei e scopre che si è staccata dal divano.

«Nina?»

Il suo nome è un suono che conosce sulla bocca degli altri e quasi mai nella propria. È familiare e allo stesso tempo sgradevole. Quanto lo è Alma, che ha lasciato un solco tra i cuscini. Nina dovrà sprimacciarli, rimetterli in forma. Distrugge sempre tutto da quando è nata e lei aggiusta, mette in ordine, prepara le medicine per quando è stanca dopo essere uscita la sera. La guarda e un po’ la odia. Ma non glielo dice, non l’ha mai detto.

«Vabbè, che palle.»

La vede prendere il cappotto, chiuderlo sul maglione a pupazzi e fiocchi di neve, orrendo, uguale al suo. Sui pantaloni in pile, resti di un vecchio pigiama. Prendere le chiavi e infilarle in tasca. Uscire dalla stanza per infilarsi in cucina e arrivare dove lei non ha voglia, all’odore di bruciato che sta ignorando. Sente che gira le manopole dei fornelli.

«Muoviti

Infastidita e sbrigativa, pigra anche quando ha fretta, le allunga il suo, di cappotto. Decide per lei, non è mai successo. È la minore, la ribelle; la bambina difficile. Che si assicura che si copra per bene e infili il berretto, fidandosi per ragioni sconosciute o così radicate che nessuna delle due saprebbe trovarle, perse nel tempo passato una accanto all’altra. Una muta, l’altra strepitante. Ma la voce di Alma adesso è tranquilla.

«Senti, usciamo a cercarli, prendiamo un po’ d’aria, ok? Ce l’hai un euro?»

Nina fa sì con la testa.

Quando escono di casa il fondo della pentola di fagioli comincia a carbonizzarsi su una fiamma non spenta ma soltanto abbassata. Mentre sublimano in fumo nero, Alma e Nina sono da qualche parte tra panchine deserte e marciapiedi invasi dalle auto. Niente si muove, non ci sono bambini per strada. A volte a Nina sembra di riconoscere una nota dissonante delle loro canzoni, quando sua sorella non parla. Dura poco: cinguetta messaggi audio di auguri, commenta qualcosa visto sui social, è a malapena con lei, anche se le cammina accanto e non ha fretta di tornare. Di raggiungere la nuvola di bruciato che non sanno esistere.

Chissà se la sente, se la sua voce rimane impressa in una registrazione che ascolterà qualcun altro, quando Nina preme i pugni in fondo alle tasche e obbliga la lingua a staccarsi dal palato, a grattarlo e ad affilarsi dietro agli incisivi. Liberandosi in un suono oppositivo, basso, imbronciato. Felice, suo malgrado.

«Grazie

 

Nicole Trevisan

Blam

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