Evoluzione di una sindrome: un racconto di Alex Guerra

 Evoluzione di una sindrome: un racconto di Alex Guerra

Illustrazione di Fabio Boffelli

Il ragazzo passeggia sul posto, ogni tanto si ferma e fa su e giù con i talloni. Nell’atrio del nientepopodimeno che il Teatro Goldoni. Attende per il firmacopie l’ospite d’onore che è stato presentato. Le mani si scaricano tra loro il libro, le dita lasciano impronte sulla copertina flessibile. La schiena è ancora dolorante per colpa dello schienale, morbidissimo ma con una rientranza accentuata lì dove si uniscono le due imbottiture. Il ragazzo si consola, dice tra sé e sé che non ha il fisico pingue di questi intellettualoidi intorno a lui: lo sogguardano allo stesso modo di come aveva visto certa gente sogguardare il barbone inginocchiato in ramo San Zulian. Tipo Palla di lardo, che si è appena messo in fila, lui e i suoi due amici sfigati. Avranno assunto la forma del sedile, assorbito la rientranza nella massa adiposa senza manco accorgersene. Il ragazzo, invece, è tutto spigolo e nervo. Di giorno fa il manovale, di notte è un lettore.

Ma chi prendo in giro?, si dice, la maggior parte dei titoli e degli autori che gli rimbalzano nelle orecchie non li ha mai sentiti nominare. Certo, ha letto quasi tutti i libri di Calvino, gli mancano solo i volumi sulle Cosmicomiche, e poi, sì, ha letto pure robe come Uno nessuno centomila, Delitto e castigo, o Grandi speranze, oppure ancora mattoni come I pilastri della terra, senza tralasciare qualcosa di autori contemporanei meno noti, tipo Maurensig e Dadati. Sa che deve ancora mangiarne di pastasciutta per considerarsi un lettore con la L maiuscola, che per leggere un libro di quattrocento pagine gli ci vuole un mese, ma non avrebbe mai immaginato che l’impatto con i suoi limiti sarebbe stato tanto rovinoso.
Si ferma un attimo per stirarsi la schiena, la friziona con la mano libera e sudaticcia.

La presunzione, ecco in cosa ha sbagliato. Essere convinto che la passione per la lettura lo escludesse in automatico dai bigotti perdigiorno con cui lavora o condivide quel pallosissimo paesino di provincia; credere di poter barattare con gli studenti universitari, ancora mantenuti dai genitori, la sua esperienza di vita in cambio di conoscenza e discorsi che andassero più in là di «guarda che figa!». Se non fosse stato offuscato da questa presunzione, si sarebbe accorto fin da subito della distanza che lo separa dalla gente ora in fila con lui. Già da casa, davanti allo specchio: non avrebbe messo la camicia bianca coreana, i pantaloni neri con il risvoltino, le Van classiche a scacchi bianche e nere. Si sarebbe accorto della distanza dai tre intellettualoidi che durante la presentazione si erano seduti alla sua destra: Palla di lardo e i suoi due amici – no, non lo notano ancora. Tutti e tre con le spalle curve e le braccia flaccide, in t-shirt e bermuda, Palla di lardo in pantaloncini da calcetto, addirittura, che gli si vedevano i prosciutti bianchi. Eppure, poco prima che la presentazione iniziasse, il ragazzo aveva provato a ridurla, quella distanza, domandando ai tre se conoscevano già l’autore. «Scherzi, è il più grande scrittore ungherese vivente.» Aveva chiesto se erano studenti. «Sì.» Che facoltà frequentavano. Palla di lardo Filosofia, gli altri due Lettere. Di sé aveva confessato di fare l’operaio ma di essere un appassionato di letteratura. «Sei uno studente lavoratore?» No, ma ci stava meditando su. «Se lo fai sei un grande» si era sentito dire da Palla di lardo. E la conversazione si era arenata lì. Era sfumata del tutto quando erano arrivate due donne, una sulla cinquantina, l’altra più giovane. Dopo un breve scambio di battute con i tre ragazzi sugli esami «ottimi», i progetti «che aprono strade» e i «devo andare perché devo accogliere» chissà chi, il ragazzo aveva intuito che erano professoressa e assistente. «Trattameli bene questi tre» aveva raccomandato la professoressa all’assistente prima di lasciarli. A lui, invece, l’unica persona ad averlo raccomandato con il «trattamelo bene» fu il suo vicino di casa alla barista del bar Centrale dopo che ebbe pagato un’ombra.

Poi le luci si erano spente.
Erano saliti sul palco il presidente del festival, il rettore e un paio di assessori – tutte facce da politicanti di merda che si mantengono solo a chiacchiere. Avevano chiuso il moderatore, la traduttrice. E quello strabenedetto più grande scrittore ungherese vivente: vestito di nero, con i capelli bianchi aggettanti da un cappello, pure quello, nero. Un cliché dell’artista, tutto qui, si dice il ragazzo, forse si è lasciato impressionare dalle chiacchiere di questi studentelli mantenuti. Poi lo scrittore aveva cominciato a parlare, la voce calda e un po’ gracchiante: ogni tanto sobbalzava come la testina di un vecchio giradischi. La traduttrice ripeteva in inglese. In inglese parlava anche il moderatore. Il ragazzo era riuscito ad afferrare solo «New York» e «Allen Ginsberg», persuaso che se tutto va bene è un tossico pure questo qui. Lo scrittore ha iniziato a leggere un estratto: un racconto tratto da una delle sue raccolte – è autore di sette romanzi e cinque raccolte di racconti, lui. Lo schermo alle spalle era diventato nero, era apparsa a lettere bianche la traduzione del testo: questo il ragazzo aveva potuto solo dedurlo perché era in inglese. Avrebbe voluto chiedere aiuto a Palla di lardo e ai suoi due amici che coglievano tutte le parole – gli era parso che pure alle persone intorno non gliene scappasse una –, ma per orgoglio si era limitato a imitare le loro reazioni con un secondo di ritardo, come in un film doppiato male, finché non aveva cominciato ad attirare occhiate ilari, tra cui quelle dei tre studenti. Allora aveva scelto di rimanere in silenzio per il resto della presentazione, in mezzo a persone che chissà quante cose gli racconterebbero se solo potesse parlare con loro. Aveva sentito il bisogno di un gesto: si era fiondato nell’atrio appena si erano riaccese le luci, era corso al baldacchino dove vendono i libri, e aveva comprato quello con la copertina somigliante al volume da cui lo scrittore aveva letto. Se non è quello, poco importa, aveva pensato.

E ora solleva l’acquisto in direzione di Palla di lardo, in fila con lui e con gli altri spettatori della presentazione, quale vessillo di un legame. Lo studente di Filosofia, uno di quelli da «trattare bene», guarda da un’altra parte, lo stesso fanno i due amici: proprio come succede continuamente al barbone di ramo San Zulian. Le persone in coda hanno un fremito, contemporaneamente, come un unico corpo. L’autore è arrivato. Con la penna in mano e il libro aperto sul foglio di riguardo dice qualcosa, una frase breve, alla donna che ha davanti. Il ragazzo non sente le sue parole ma deduce che sarà la solita domanda di rito: «A chi lo dedico?».
Esce dalla fila e dal teatro.
Ha una fame improvvisa e vigliacca. Laggiù, sulla sinistra, c’è un ristorante. L’entrata è piantonata da un cameriere che sembra italiano; il ragazzo chiede se c’è posto per uno. Sì, è italiano. Quando varca la soglia trattiene una smorfia alla vista del personale pakistano, o marocchino, o cinese, o cingalese, forse hanno piazzato fuori l’unico cameriere italiano con la funzione di specchietto per le allodole. Uno di questi, sorridente, i denti bianchissimi, lo accompagna a un tavolino quadrato. Il ragazzo trattiene un’altra smorfia: lo schienale rigido preme proprio sul punto dolente. I clienti sono tutti turisti stranieri. Ha fatto proprio la figura del turista beota che vuole mangiare pesce a Venezia e invece si ritrova in un ristorante di pakistani, marocchini, e chi più ne ha più ne metta, che se tutto va bene cucinano pesce di due settimane fa e te lo fanno pagare a prezzo pieno perché siamo a Venezia, come dice il menù che gli porge il cameriere sempre sorridente.
E il libro occupa troppo spazio sul tavolino, dovunque lo appoggi e in qualsiasi posizione lo giri e suscita il sorriso di una coreana, cinese, giapponese, cazzo che sia, del tavolo di fronte. Il loro stupido pudico risolino.

 

Alex Guerra

Blam

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