Gestire l’assenza di qualcuno che poteva essere e non è stato: «Economia domestica» è il racconto di Federico Dilirio

 Gestire l’assenza di qualcuno che poteva essere e non è stato: «Economia domestica» è il racconto di Federico Dilirio

Illustrazione di Francesca Galli

Ti ho detto che si chiama presse à canard un minuto fa. Ce l’hanno regalata al matrimonio. Posala.

Sì, la gravidanza è una sorpresa che ti cambia l’esistenza, ti muta in una macchina da soldi. È certo però che ti ingrassa e dimagrisce a comando, fino alla terza settimana. Dopo devi vedertela da sola.

Non mi sovviene il momento esatto in cui l’ho perso. L’ora e il minuto preciso. Un secondo prima era lì e un secondo dopo no: una differenza sostanziale. Ne esistono molteplici varianti, nella memoria. Con la scarola o con la zuppa; con le pupille e i sottaceti. Con l’uovo tostato? Mah!

Dice che sentirsi in colpa è sbagliato. Apri il doposole, senti. Petali di gerbera, liquirizia e malva: popstar in cerca d’oblio. Riconosci il bouquet? La celebrità si accompagna all’amarezza.

Guardo la campagna da casa dei tuoi. Prepari il tè. Il gatto mi lecca la cute, i capelli che mi ero azzerata quell’estate. Mi passi vicino e mi sfiori. Sognavi di fare l’entomologo, invitati sparsi come petali in giardino. C’è un sole. A festeggiare il tuo quarantesimo compleanno. Vedo una polaroid sforbiciata, sbriciolata nei cassetti. Ubriaconi da quattro soldi. Sono finiti i bicchieri, possono usare le scodelle. Attento! Mangiamo sul prato stasera, è ottobre, ma fa un caldo. Chi ha invitato quella cagna? L’aria è fredda, mettiti al sole. Ti affascina il mondo degli insetti, come no: siamo programmati per una vita di fallimenti.

Mi manca sistemarti all’alba la marsina color porpora. Il sole dietro le nubi. Per cominciare la giornata un piatto di legumi e una frustata dal governo. Cambiare aspetto.

No, scherzavo. Tieni le mani a posto, stasera. Molti di coloro che hanno subito un intervento chirurgico imitano la mia pettinatura.

Accendi i fornelli. Ho licenziato la servitù: nessuna pietà per i rivoltosi. Cottura lenta, pappardelle al fritto di Gaugamela, esecuzione per stordire gli ospiti. Da esposizione. Non crederci, ma a molte delle mutilate sono finiti i capelli nel pentolame.

Quanto mi sento stupida a parlare di te al mercato. Che bisogno c’era di ammassare qui la spazzatura? Non fanno che chiedermi di te, di quando tornerai. Niente cinghiate, niente funghi, posso improvvisare un ragù di lepre.

Le poltrone che hai spostato vicino al palco? Le ho regalate al fisco per pareggiare i conti. Hanno fatto in modo che tu mi lasciassi, non ti hanno dato scelta. Non li difendere. Il fisco non le ha volute, nemmeno mia madre. Le ho regalate allo zoppo, pantaloni a vita alta: un rudere. Non vengono a pranzo, non hanno avvertito, si sono limitati a non presentarsi. Come se niente fosse. Si addensano le lacrime sui miei occhi. No che non funziona la respirazione diaframmatica che mi hai insegnato.

Si addensano le culle davanti al sole.

Apri la finestra, ho bisogno di prendere una boccata d’aria. Tre respiri profondi per ritrovare la pace interiore. Il bambino, una femmina, è morto poche settimane fa. Per distrarmi dai dispiaceri il corpo scricchiola: guarda come ciondola. Ma no, mi ubriaco solo i giorni che iniziano con la M. Le borse piene di stracci, mio fratello mi aiuta come può. Povero diacono, che pena mi fa. Lo ricopro di latrine, abbraccio il maialino in agrodolce e trascino le gambe verso il supermercato, per risparmiare una singola moneta, nella speranza di prendere il carrello.

Patetica, con le gambe ad angolo. I dolori della giovane vertebra. La birra calda è meglio di niente. Un’altra. Dicevo, se fossi un animale sarei un’anatra: è un pennuto, ma non vola, non è un pesce ma se lo spiumi ti mette allegria. A casa di mia sorella ci siamo infradiciati. Ho detto un’altra, grazie. Il servizio è così scadente. Riabbraccerai le mie esibizioni tra danza e recitazione? E quel giorno d’inverno prima di salire in macchina hai detto ti amo. Non è la musica alta, hai sentito benissimo. Cameriera, me ne porti un’altra. Questa volta gelata, per cortesia.

Collezionavi oggetti a forma di gabbiano. Ne ho più di mille, di tutti i colori.

I ricordi sono peggio della polvere. Ho visto quella misoneista di mia madre restare abbarbicata ai ricordi. Giurai a me stessa di non finire come lei. E ora? Identica. Cosa c’entra, non ho detto mesozoica. Vestite entrambe con abiti drappeggiati in stile greco. Lei poi con la dipendenza dai pistacchi, io con la bottiglia sotto il cuscino, caracollavo.

Mi disprezzava e io cantavo per lei. Anoressica, masticava accavallando le gambe, il suo posto preferito era il divano. Non stare impalata, taglia a dadi un metro di condilomi, friggili e scolali sui cuscini in cucina. Tu romantica? Ma se sei un fossile.

Avevi ragione quando dicevi che ero come lei. Che posso incendiare l’inferno. Io, la tua dama di devozione. Il maiale vomita mezza cipolla in cortile, tu gli dai un etto di salvia, tagliata col burro, e lui trotterella via, simpatico. Come lo hai chiamato? Sauvignon. È un bel nome, Sauvignon, significa sole in primavera. Un po’ scontato.

Mi fa male udire le parole di quel giorno. Il menù con i paccheri. Al dente, damerino. Grattugia la ricotta, posiziona la flotta sotto al sedano e spingi il cipollotto in padella. Il volume di fuoco non ci spaventa. Decimati dalla flotta francese, siamo una coppia che sa quello che vuole e se lo prende.

Anni prima, io sdraiata sul letto, stavi dormendo, decisi che era uno dei giorni più belli della mia vita. Ne ho avuti tanti con te. Alla salute! Antiossidanti e ketchup che salvano il sorriso.

I corpi erano tutto, e ora una grancassa: svuotata, condita con albicocca, feta e mirtilli. Utile, in presenza di gambe gonfie e ritenzione idrica. Purulenta, nel piccolo trilocale, monumento alla memoria. Piena di larve e lenticchie lessate. Come un tramonto in cui coltivo il mio cranio. Indosso un satin in resina. L’alcol ha compromesso la voce, oltre al corpo, lasciandomi incinta del nostro secondo figlio.

I ragazzi per strada mi urlano dietro insulti incomprensibili. Mi chiamano la «Maragià», credo per il turbante, che indosso per coprire la calvizie.

Abbiamo girato il Turkmenistan con la Lancia Delta, e quel gusto di cannella che non se ne andava dalla bocca. Poi Seul, nel tentativo di rendere la nostra vita grandiosa. Di notte cercavamo di non uscire di strada. È sempre la presse à canard, regalata al nostro anniversario. Non serve a niente, se non a estrarre il succo d’anatra di cui sono ghiotte le dame per scongiurare la tisi.

I bambini giocano in strada e io crollo nel bosco in cerca di provviste. Tu ti tieni distante. Le tue regie a Lubiana, i tuoi viaggi, le tue amanti. La Francia, che posto di merda. Non trovi il nettare e lo cerchi altrove. E Ibsen, al quale non mi hai permesso di eseguire il ritratto. Lo avrei condito con latte di trota emulsionato. La pioggia cade sui bicchieri in terrazzo. Aiutami, portiamo le sedie dentro. Non ti bagnare. Fa’ di testa tua.

Dove hai messo il denaro di tua madre?

Potevi usarlo per comprare un regalo ai bambini. Vedrai, nei miei dipinti il corpo è come frantumato. Ti sei ammazzato in mare a forza di camembert e gazpacho.

Spero che ci seppelliscano nel cimitero di mamma, vicino ai nonni.

Addio, amore sporco di caffè.

Affondami, se non l’hai già fatto, tra la pioggia nei bicchieri, con l’unica violenza che speri percepisca.

Il galateo invita a consumare fredde le frattaglie di vitello. Solo ragni e ragnatele sono peggio della placenta in fiore. E delle ragadi.

 

Federico Dilirio

Blam

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