La sindrome di Ræbenson di Giuseppe Quaranta: storia di una ricerca ossessiva alla scoperta di un malattia rara

 La sindrome di Ræbenson di Giuseppe Quaranta: storia di una ricerca ossessiva alla scoperta di un malattia rara

La sindrome di Ræbenson (Blu Atlantide, 2023) finalista al premio Calvino 2023, è un romanzo che ha al suo centro una sindrome sconosciuta, la quale esercita un’irresistibile attrazione sullo psichiatra narratore. È, dunque, la storia di una ricerca che giunge al termine, ma che, in qualche modo, resta incompleta. Sono troppi i chiaroscuri sopravvissuti alla luce del positivismo scientifico, troppe le domande senza risposta. Nessun punto fermo in questo mondo, neanche quello che certo cinismo ama ricordare secondo il quale l’unica certezza è la morte. Gli affetti da sindrome di Ræbenson non muoiono di cause naturali, non possono. Vampiri moderni, condannati alla longevità, sono destinati a vedere morire coloro che hanno amato, a esperire visioni e cromie del tutto personali. Al suicidio, se vogliono trovare riposo. Giuseppe Quaranta, l’autore, è uno psichiatra ed è naturale chiedersi quanta della sua esperienza clinica sia entrata nella genesi di questo suo primo romanzo. Ci troviamo di fronte a una storia di fiction dalle coordinate troppo umane, per non suggerire qualche prossimità, qualche sovrapposizione, con la sua professione.

La sindrome di Ræbenson di Giuseppe Quaranta: la trama del libro

«Aveva da sempre avuto l’impressione che le parti di cui era fatto non vedessero l’ora di disfarsi, come la materia organica di certi minerali, per essere poi pronte a ricomporsi in una nuova forma – bastava anche il semplice riposo a renderlo possibile». Antonio Deltito è uno psichiatra, ma è anche un uomo malato di un male indefinibile. I suoi sintomi si manifestano senza possibilità di essere occultati, in un’occasione mondana. Durante un cenacolo di psichiatri, il narratore, medico anche lui, viene catturato da un’ossessione: quella di stare vicino a Deltito e aiutarlo a interpretare e classificare il suo disturbo. Il narratore, nell’orbitare intorno al malato, ne conosce la compagnia e insiste affinché la scienza medica si prenda cura di lui. Scoprirà presto che Deltito sa benissimo da cosa è affetto: la sindrome di Ræbenson. Quest’ultima somiglia a una forma di demenza ma non è a essa del tutto sovrapponibile. Inoltre, prima che l’emulazione ne denunci un numero di casi sempre in aumento, la sindrome sembra verificarsi in individui che hanno avuto (o perso alla nascita) un fratello gemello e che presentano un tratto fisico ricorrente: la turricefalia. Neanche la morte di Deltito porterà pace alla ricerca del narratore, che continuerà fino a riuscire a pubblicare articoli scientifici sulla famigerata sindrome, diventando di fatto uno dei ræbensologi (ovvero studiosi occulti della sindrome). La linea rossa, per citare James Jones, tra medicina, normalità e malattia non è mai stata così sottile.

L’immortalità, il nettare degli dei

Il romanzo, che ricorda nell’impianto, nella poetica e nella prosa alcune opere di Italo Svevo, passa in rassegna una galleria di esseri umani che vengono descritti con grande vicinanza. Dalla comunità scientifica agli affetti di Antonio Deltito, il narratore incontra, chiede, descrive, rimane un passo indietro nel tentativo di non perdere la sua missione di ricercatore, di testimone. In fondo, il narratore dedica la sua esistenza a raccontare la malattia di chi vive troppo a lungo. Il tema comprende il ruolo che ha l’ereditarietà, intesa come patrimonio genetico, ma anche come ambiente familiare nel quale si è cresciuti, si è imparato e del cui imprinting non ci si libererà mai. La sindrome di Ræbenson, a un certo punto, assume i contorni dell’epidemia. Il narratore, però, ribadisce in più punti che non è implicato alcun virus. Forse è un contagio d’altro tipo: mentale o suggestivo, che produce però effetti reali. Le persone affette dalla sindrome, oltre che dalla turricefalia (una particolare forma alta e squadrata di cranio), si caratterizzano per una longevità che si estende all’infinito. Ma i ræbensononiani sono la testimonianza che l’immortalità non rende felici. Infatti, sono condannati a perdere chi amano, a una vista che si offusca di verde, ad amnesie improvvise, a migrazioni della coscienza da un corpo all’altro. Sono ignorati dalla letteratura medica e scherniti dagli altri esseri umani che ne minimizzano i sintomi e i disturbi. Il romanzo è un grande racconto su ciò che la scienza può afferrare, catalogare e rendere, se non innocuo, meno letale e su ciò che rimane fuori della sua portata e che solo nella terra della narrazione, nelle pause, negli occhi dell’altro trova la sua collocazione.

La scrittura di Giuseppe Quaranta in La sindrome di Rebenson

«La morte è un accumulo di segreti». Il romanzo ha, tra gli altri, il pregio di vivere di una scrittura cesellata e poetica, che ritaglia i suoi spazi in un racconto che il narratore vorrebbe oggettivo perché alla fine si tratta di un’indagine medica, diagnostica. Eppure, l’esplorazione della malattia diventa una ricerca sull’uomo, e il resoconto è un diario straziante delle contraddizioni, delle meraviglie e degli abissi che nell’essere umano, inafferrabile dalla scienza, si nascondono. La voce del narratore è sempre elegante ma trattenuta, non cerca l’emozione. L’esito è una grande intensità che nasce dal contrasto tra il dolore raccontato e la forma sobria in cui riesce sulla pagina: «Provava, Antonio, il dolore più tremendo per la perdita di qualcosa? Era tale da non aver spazio a sufficienza per essere contenuto. Si era scontrato con i limiti della sua disperazione, aveva cercato di espanderli. Non c’era riuscito e aveva dunque rinunciato alla propria identità. Era per questo che voleva essere un altro, altrove».

                                                                                                                                                                                         A cura di Sara Benedetti

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