Il violino del pazzo di Selma Lagerlöf: una fiaba sul potere dell’arte scritta dalla prima donna premio Nobel. Recensione

 Il violino del pazzo di Selma Lagerlöf: una fiaba sul potere dell’arte scritta dalla prima donna premio Nobel. Recensione

Il violino del pazzo di Selma Lagerlöf (Iperborea, 2023) è un romanzo, pubblicato nel 1899 a Stoccolma e finora inedito in Italia, scritto dalla prima donna che ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1909. La storia intreccia luoghi e archetipi della fiaba con elementi del romanzo picaresco per raccontare il compiersi di un destino. L’ambientazione descrive una Svezia tra realtà e favola: in cui la superficie delle cose nasconde il vero significato che si rivela solo ai puri, e l’immaginazione è più importante, a saperla ascoltare, della realtà. La genesi dell’opera, distante da noi più di un secolo, non rende obsoleta la scrittura né il tema, ma appesantisce il romanzo solo nel finale prolisso: alla sensibilità contemporanea, con un bagaglio di letture più ricco di un secolo, sarebbe bastato ritrovare il protagonista con il violino tra le mani in una scena simile a quella di tanti anni prima, per trarre le giuste conclusioni.

Il violino del pazzo di Selma Lagerlöf: la trama del libro

Uppsala, autunno, fine anni Trenta dell’Ottocento. Gunnar Hede è uno studente affascinante e dotato di talento, erede della tenuta di Munkhyttan nella Dalecarlia occidentale. I suoi studi languono: «Non fai altro che suonare […] è questo vecchio violino italiano il tuo vero pericolo» gli dice Gustaf Ålin, l’amico venuto a comunicargli che la famiglia rischia di perdere la proprietà per un rovescio di fortuna, se lui non farà qualcosa. Gustaf requisisce il violino a Gunnar per assicurarsi che ritrovi il senno. Ma arrivano delle note dal cortile e Gunnar scende, chiedendo di poter suonare il violino di un vecchio cieco che si trova lì con sua nipote, Ingrid, e un paio di acrobati cacciati da un circo. Quel violino tra le mani dello studente suona una musica struggente capace di «strappare la gente da sé stessa» e Gunnar sta salutando così la musica, si sta congedando dall’arte.

Tornerà nella tenuta di famiglia e diventerà venditore ambulante, come suo nonno, per salvare la proprietà. Quando ha guadagnato abbastanza per saldare i debiti, Gunnar però non ricorda più chi è e cosa ama e continua a girare il mondo con il suo sacco pieno di coltelli, forbici e accette. Lo chiamano Becco, lo considerano pazzo. Nel frattempo, Ingrid ha perso il nonno ed è stata adottata dalla famiglia di un pastore dove non è amata. Si ammala e, ritenendola morta, la seppelliscono, cosa che a lei – tale la sua infelicità – non dispiace. A salvarla, senza saperlo, arriva Becco che siede nel cimitero sul ciglio della terra scavata da poco e suona il violino. Le note richiamano Ingrid alla vita, le suggeriscono che lo studente incontrato in un giorno lontano, a cui pensa tutti i giorni, è in pericolo e solo lei può salvarlo. Sulla loro strada i due troveranno la casa nel bosco di una vecchia buona e saggia, la tenuta di Munkhyttan con una stanza nera piena di pipistrelli, un lago ghiacciato pattinando sul quale si può ritrovare sé stessi e un vecchio violino, chiave dell’intera vicenda.

L’arte, baluardo contro l’oscurità e l’oblio

Come scrive James Hillman nell’opera Il codice dell’anima: «Quando l’invisibile abbandona il mondo quotidiano […], allora, il mondo visibile non può più alimentare la vita, perché la vita non ha più il suo sostegno invisibile. Allora il mondo ti dilania». Di questo parla Il violino del pazzo: se ci dedichiamo al commercio del quotidiano, alle questioni pratiche senza curare l’anelito all’oltre che pure ci abita, smarriamo la nostra via, non siamo in grado di ricordare. Ma l’arte non è sancita dal successo, sembra suggerirci l’autrice nel rappresentare il magnifico duo degli acrobati, il signor Blomgren e miss Viola, di cui ci racconta che: «Il circo li aveva rinnegati, […] ma l’arte no». Saranno loro a mettere Ingrid di nuovo sulle tracce di Gunnar, quando disperava di poterlo ritrovare: «Non erano state le loro storie a restituirle la luce, ma il loro sconfinato affetto». Lo stesso personaggio di Ingrid, che sembrava senza talento, si rivela in realtà dotato, capace di sovvertire i pronostici: «Si poteva avere occhi come quelli senza essere destinati a qualcosa di grande?». Ma qual è il pericolo che incombe sui due amanti? L’oblio (Gunnar dimentica chi è e Ingrid perché si dovrebbe vivere) e l’oscurità, la cui personificazione è Madama Cordoglio. Giunge in visita alla tenuta su una slitta nera, trainata da cavalli neri, per verificare che nulla sia fiorito o abbia prosperato in sua assenza e che la Consigliera (la madre di Gunnar) non trovi sollievo al suo dolore per il figlio perduto. «Coltelli e forbici mi trapassano il cuore ogni giorno» le conferma la donna. Ma le cose stanno per cambiare.

La scrittura di Selma Lagerlöf in Il violino del pazzo

«Hede sentiva che la terribile prostrazione che reprimeva le sue speranze cominciava a recedere. L’archetto aveva cominciato a volare sulle corde. Gli diceva che c’era gioia nella lotta e nella conquista, e sembrava quasi volesse congratularsi con lui per l’alta posta che aveva in gioco».

Il romanzo è scritto in una lingua semplice articolata in un fraseggio lineare, che esprime pensieri mai banali. È come se l’autrice, portandoci in un altro «dove e quando», in una terra tra realtà e fantasia, riuscisse a dare nuova vita ai termini comuni come fa Ingrid quando posa il suo sguardo sul mondo e su Becco.

La prosa scorrevole ricorda le fiabe lette nell’infanzia, ma nelle pagine trovano spazio momenti di lirismo esistenziale per ricordarci che non è solo una favola, è della vita che si sta parlando: «Aveva atteso con ansia le foglie verdi e i bucaneve, il canto dei tordi e i richiami dei cuculi. Ma quello era infantilismo, nient’altro. Non desidera davvero la primavera chi pensa solo alla bellezza. Si dovrebbe prendere in mano e baciare la prima zolla di terra che spunta dalla neve. Si dovrebbe cogliere la prima grinzosa foglia d’ortica, solo per sentire dal bruciore della pelle che è primavera».

 

A cura di Sara Benedetti

Blam

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