Il libro che tutti stavano aspettando: Dare la vita di Michela Murgia. Ecco di cosa parla il libro

 Il libro che tutti stavano aspettando: Dare la vita di Michela Murgia. Ecco di cosa parla il libro

Dare la vita di Michela Murgia (Rizzoli, 2024) è un libro uscito postumo, nel quale l’autrice ha condensato, con l’aiuto di Alessandro Giammei che ha curato l’edizione, le riflessioni degli ultimi anni della sua vita. Un pamphlet coraggioso, necessario e prezioso, prima di lasciarci nell’agosto dello scorso anno. Come ci racconta il curatore, Michela Murgia avrebbe voluto comporlo in sei mesi, ma a causa delle sue condizioni di salute ingravescenti, lo ha chiuso in sei settimane. Per questo il testo è un concentrato di forza, pensiero nitido, volontà di affermare le ragioni illuministiche del dialogo e il male che fa l’omissione.

Dare la vita di Michela Murgia: di cosa parla il libro

Il saggio di Michela Murgia ha una struttura chiara, articolata in capitoli i cui titoli giocano con la parola «queer» e restituiscono il procedere del pensiero nel libro: si sorride dei nostri limiti, degli schemi che ci governano, si riflette e ci si commuove nel bellissimo capitolo conclusivo. «Altre madri. Cosa avrei raccontato a mia figlia quando ero un’altra». I temi toccati dall’autrice, Gpa, famiglie queer, maternità logica e biologica, ruotano tutti intorno al cuore del «dare la vita», mettere al mondo. Un’espressione dai molteplici significati che al giorno d’oggi non possiamo esimerci dall’esplorare. Michela Murgia che non ha mai esitato a esporsi, facendo del suo privato un atto politico, mette sul tavolo del discorso le proprie scelte, le proprie convinzioni e i propri dubbi. Nel capitolo sottotitolato Considerazioni da cristiana a margine della surrogata concezione, non sorvola su una galleria di gestazioni per altri contenuta nella Bibbia, e la fa poi entrare in collisione con il veto posto dalla dottrina cattolica, a tutto ciò che va oltre il limite massimo che è la fecondazione omologa da coppia eterosessuale coniugata.

Chi può dire cosa sia una famiglia e cosa no?

«Stato interessante. Attraverso questo eufemismo, sin dall’Ottocento ci si riferisce con inspiegabile pudore all’esperienza della gravidanza. È un termine curioso. Da un lato sottintende che tutti gli stati di vita della donna che non implicano l’essere incinta siano privi di interesse. Dall’altro suggerisce che a quello specifico stato, tutti (e in particolare lo Stato) dovrebbero prestare un’attenzione particolare. È anche un’espressione ipocrita, perché nella realtà non c’è niente che riceva dalla gente e dalle istituzioni meno interesse del destino di una persona incinta. O di una madre, il cui status non sempre coincide col più interessante degli stati».

Una partenza a spron battuto quella di Dare la vita, volta a metterci di fronte agli inganni del linguaggio. L’autrice ci porta all’interno della sua riflessione dove l’approdo a una famiglia queer, la sua, è il traguardo di chi ha voluto prendere le distanze dal «familismo amorale» (espressione coniata negli anni Cinquanta dai sociologi Edward C. Banfield e Laura Fasano), quella forma di pensiero molto italiana dell’essere pronti a tutto per difendere e avvantaggiare i propri consanguinei a scapito degli estranei, che poi sarebbero la comunità. A questa deviazione del pensiero e dell’affetto, l’autrice contrappone le affinità elettive, la famiglia per scelta, il numero che si moltiplica perché tanto l’amore non si divide, si moltiplica anch’esso.

È giusto partorire un figlio per conto di altri? Su quest’ultimo tema, la Murgia rifiuta le definizioni approssimative e svalutanti di utero in affitto e maternità surrogata e reclama un quadro legislativo entro cui prevedere delle regole che difendano i soggetti più a rischio di abuso.

«In assenza di leggi a tutela delle parti deboli, la forza del denaro può fare tutto. Prima della legge sul divorzio gli uomini sparivano, abbandonavano le mogli e i figli e nessuno poteva obbligarli al mantenimento. Prima della legge sull’aborto le donne abortivano lo stesso, ma morivano nel tentativo clandestino e nessuno ne aveva responsabilità. Le leggi che consentono sono le sole che possono mettere dei limiti all’azione che stanno legittimando, per il fatto stesso di riconoscerla. L’assenza di leggi permette invece qualunque eccesso, perché nessuno degli abusi perpetrati sulla parte debole è definibile come tale: semplicemente, senza legge, non esiste». 

La scrittura di Michela Murgia in Dare la vita

«La logica del binarismo, specie in termini di genere, è ideale per sostenere questa idea cementizia della persona umana, dove ciascuno ha un solo posto nel mondo, ognuno una sola identità, sempre quella, e tutti sono rassicuranti e rassicurati, illusoriamente incollati a una sola immagine di sé. In tale cornice ogni cambiamento è minaccia, ogni alternativa è destabilizzante e ogni considerare una possibilità diversa è un tradimento del patto iniziale».

La prosa della Murgia è scorrevole, ricorda il suo argomentare negli interventi pubblici, nei post di Instagram. Espressione di un pensiero stringente, generoso di spiegazioni ma lanciato verso il finale del discorso: là dove si tirano le fila, si chiedono in concreto dei cambiamenti, un’azione. Non chiede di abiurare alla ragione in preda ai sentimenti, al contrario di riappropriarsi del libero pensiero, della libera scelta di condurre la vita come si ritiene giusto, oltre i dettami con cui ci hanno cresciuto i genitori a loro volta cresciuti da un’idea di Stato che dovrebbe volere il bene pubblico e invece ci vuole ingranaggi ognuno al suo posto. Michela Murgia non manca di toccare note poetiche, e lo fa in alcune oasi che si aprono nel discorso argomentativo senza mai annacquarlo, piuttosto andando a impreziosirlo. Per ricordare che ogni binarismo è errore, anche quello che ci chiede di scegliere tra testa e cuore.

«Dimmi che ami quello che di me cambia di continuo, e io potrò continuare a darti quello che di me davvero non cambia: la voglia di sceglierti ogni giorno in modo differente, come diversa sono io ogni mattina quando apro gli occhi».

 

A cura di Sara Benedetti

Blam

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