Custode della terra di N. Scott Momaday: biografia poetica del Far West. Recensione

 Custode della terra di N. Scott Momaday: biografia poetica del Far West. Recensione

Scott Momaday, primo scrittore nativo americano a essere stato insignito del premio Pulitzer per la narrativa nel 1969 grazie al suo romanzo Casa fatta di alba (Edizioni Black Coffee, 2022), torna in libreria con un libro che lui stesso ha definito un’«autobiografia spirituale»: Custode della terra. Riflessioni sul paesaggio americano (Edizioni Black Coffee, 2023).

L’autobiografia, che leggiamo nella traduzione di Laura Coltelli, si compone di frammenti poetici che, come tessere di un mosaico, non restituiscono l’immagine di un solo uomo, ma delle generazioni passate e future che in lui convergono e trovano voce.

Custode della terra di N. Scott Momaday: di cosa parla il libro

Il libro si apre con una dedica «alla terra ricordata»: fin da subito l’autore svela a chi legge l’intenzione di rendere manifesto, in queste pagine, uno scambio con la terra – non solo nell’accezione di «paesaggio» – che sia filtrato dalla memoria. L’appartenenza alla terra, «l’investimento nel paesaggio», diventa un dono ricevuto e poi alla terra restituito sotto forma di offerta.

Il raffinato progetto di Momaday si articola in due sezioni, intitolate all’alba e al crepuscolo. All’inizio della prima, il narratore assiste alla tremenda caccia del falco: questa «scena selvaggia» pian piano popola la terra – e con essa la memoria – di lupi, cavallette, conigli, orsi, aquile, bisonti e coyote che abitano il paesaggio americano, e al contempo traccia le coordinate di una coloratissima regione interiore.

Ogni elemento si anima nel tratto poetico, cominciando a raccontare qualcosa di un mondo nel quale la presenza dell’uomo è fortemente ridimensionata e destituita della sua pretesa di dominio; il rispetto della natura non è un’attitudine artificiosa, vissuta alla stregua di un ragionevole dovere, ma l’esito di un dialogo con l’ambiente, di una comprensione profonda che pone con naturalezza l’uomo alla pari con qualunque altro elemento. Partendo da questa prospettiva la morte di un’oca durante una caccia viene rievocata in un frammento di straordinaria intensità; si afferma che anche i cani, arrivati nell’Ovest insieme agli antenati, possono custodire la terra; che i cavalli sono un dono e che la piuma di un’aquila, essere che fa da tramite fra terra e cielo, è un segno di potere.

Il paesaggio americano fa spazio all’incontro di tradizione e spiritualità, dando vita a una serie di immagini poetiche stratificate. La danza delle cavallette insegna che il loro «diritto di permanenza» è pari a quello dell’uomo; attraverso lo scorrere dell’acqua si può osservare il tempo: l’immagine sembra una rappresentazione concreta del concetto stesso del tempo che passa, ma dal confronto con essa si può dedurre che è l’essere umano a «passare attraverso il tempo». Dall’osservazione della natura l’uomo dunque apprende di sé, mentre il racconto dell’evoluzione dei costumi del popolo Kiowa al quale l’autore appartiene assume tutte le caratteristiche della leggenda.

La prima parte si chiude con una pagina molto luminosa, una preghiera, mentre la seconda si apre su un tono più cupo: lo sterminio cieco dei bisonti. Qui, per la prima volta, i segni di un paesaggio urbano, antropizzato, irrompono nelle riflessioni dell’autore e il silenzio che domina la vastità degli spazi è compromesso, anche se in maniera intermittente. Il poeta sembra sempre meno capace di ripescare frammenti di bellezza.

Se la prima parte dell’opera dunque lascia ampio spazio alla memoria, nella seconda vediamo il narratore muoversi nel mondo (prendere un aereo, insegnare all’università…), immerso nel presente e soprattutto aperto alle domande sul futuro. Si coglie un anelito costante a non allontanarsi dalla terra o, per usare un’espressione di cui l’autore si serve in due occasioni, a non essere da essa reciso.

È l’indifferenza dell’uomo ad ammutolire gli elementi: basta fermarsi a guardare una foglia per accorgersi di tutte le storie che il suo passaggio conserva in sé. Del resto anche la terra che accoglie i defunti, per Momaday, non è fredda, ma è «una casa di storie».

Struttura del libro: una ciclicità che piega gli estremi

Alba e Crepuscolo, le due sezioni di questa autobiografia poetica, sono momenti narrativi altamente simbolici che segnano gli estremi di una ricerca profonda; estremi che non delimitano nettamente un inizio e una fine ma piuttosto sfumano nel territorio della memoria da una parte, e di accese speranze per il futuro dall’altra. Il recupero del passato quanto le attese, in Momaday, non mancano di essere problematizzate, divenendo occasioni di vicendevole scambio. L’autore non si limita a proiettarsi in un futuro vago né a riallacciarsi a un passato inerte: al futuro guarda la ricerca di una chiave di lettura che aiuti a muoversi nel presente; nel passato si innestano le motivazioni di ogni gesto. Non c’è, in queste pagine, la pigra contemplazione di un presente incastrato tra nostalgia e speranza, governato dalla forza centrifuga che allontana la responsabilità – la coscienza, perfino – su ciò che è, invece, qui e ora; l’uomo di Momaday – narratore e narrato – è inserito in un movimento anulare che prende avvio da una forza fondamentale: quella imposta dal rispetto, del prima e del dopo, che non annichilisce e non imprigiona ma, piuttosto, moltiplica le connessioni con la terra – di cui ci si fa custodi, in un rapporto di reciprocità – e impedisce di allentare la responsabilità nei suoi confronti.

Anche l’idea di «parentela tra il cacciatore e la preda» sottende il rispetto, a far sì che i due attori della caccia siano legati e non avversari, rappresentanti della continuità tra la vita e la morte. Nella «terra ricordata» di Momaday non ci sono opposizioni: i contrasti sono dolcemente risolti nella «benevolenza della terra».

La volontà di imprimere un andamento ciclico si deduce del resto in maniera immediata dall’immagine a cui sono affidate l’apertura e la chiusa dello scritto: quella di una donna che arriva nell’Ovest, una terra nuova, con il suo magnifico abito da sposa, e che con esso verrà sepolta.

La fine di ogni giorno è sancita dall’«antica conflagrazione» del tramonto, che segna quasi una palingenesi quotidiana.

La scrittura di N. Scott Momaday in Custode della terra

Nel ricomporre le enormi distanze e la varietà di colori dell’Ovest americano, la scrittura di Momaday sa essere vivacissima, salvo poi farsi meditativa quando volge al canto, alla preghiera.

Già nella dimensione del romanzo l’autore aveva saputo accogliere gli stessi registri, dando vita a una narrazione rarefatta, a tratti onirica, e sempre intensamente poetica.

In un simile ordito opalino Momaday sceglie di marcare decise pennellate lessicali e semantiche laddove intenda imprimere un movimento narrativo; è il caso del secondo capitolo di quest’opera, nel quale l’irrompere di cartelli pubblicitari, marciapiedi, automobili, motoseghe e aerei non può passare inosservato e produce esiti stranianti e persino disturbanti.

Ancora più chirurgica l’operazione che lo scrittore – supportato da una traduzione efficace – compie connotando in senso fortemente espressionista alcune immagini: quando raccomanda di non «recidere noi stessi dalla terra», il verbo che sceglie è cruento e comunica tutta la violenza di un simile eventuale distacco.

Infine, è proprio a un rivolgimento verbale che si potrebbe affidare il senso ultimo dell’opera, che non vuole solo cantare la terra, ma farsi canto della terra stessa («Sii il canto di questo suolo»): ancora una volta l’uomo non domina, ma viene accolto nel ciclo.

 

A cura di Chiara Marino

Chiara Marino

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *