Storiella sconnessa, vita normale: un racconto di Simone Massara

 Storiella sconnessa, vita normale: un racconto di Simone Massara

Illustrazione di Valentina Merzi

Prendo, con calma, la strada di casa. La giornata è bella, i palazzi sono tagliati dal sole, in alto. Penso a cosa devo fare: la spesa – ricordare il latte e le piadine –, togliere le cose dalla lavatrice, che sennò puzzano. In frigo c’è la mortadella, mi farò una piadina con mortadella. Ricordare latte e piadine. Latte in portoghese si dice “leite”, si pronuncia /leɪʧɪ/, mi piace come suona il portoghese. Lo voglio imparare. La bossa nova e Saramago si esprimono in portoghese. Mi piacciono entrambi. Brasile e Portogallo. Mi piace pure Pessoa. Tipo complicato. Forse faceva la spesa più volte, una per ogni persona, una per ogni eteronimo. Persona, in portoghese, si dice “pessõa”. Il segnetto che sta sopra la “o” si chiama come una ragazza tedesca, “tilde”, e indica che in quel punto, prima della “a”, è caduta una “n”, per via dell’erosione della lingua, nel tempo. Da pessona a pessõa, da persona a Pessoa. Non può essere un caso. Quella “n” è caduta apposta per lui. Sulla carta stanno finendo i soldi. Stanno sempre finendo i soldi. Quando, poi, me la caricano, mi sento pieno pure io. Più disteso, meno incazzato. Vedo scritto “euro 300”, a inizio mese, e mi sento pieno di forza. Penso: posso andare al cinema, prendere il cornetto la mattina, comprare il giornale – certe mattine ne prendo pure due, con i supplementi e tutto –, posso andare in centro in pizzeria, posso comprare libri. Ma dura poco. Dopo la prima settimana del mese vedo scritto “euro 95”. Vabbè. Alla seconda settimana, “euro 0,28”. E che cazzo però. Quella mattina di ogni mese che vedo la carta vuota, inizio la mia esistenza di fantasma, che si risolverà solo all’inizio del mese dopo. La dispensa stipata di fagioli e ceci in scatola, il couscous scondito, non scade mai, qualche zucchina vecchia la cui vita è tirata fino alla muffa. Niente cornetto la mattina, niente giornale, niente pizzeria in centro. Lesino il tabacco e le cartine, e i filtri li faccio con i cartoncini che trovo per casa.

Cammino e penso, e senza accorgermene sono già a metà strada. Sotto gli alberi, le foglie cadute marce sul marciapiede, odore di fumi e decomposizione punge il naso. Come sarei se fossi un personaggio? Come sarei? Come sarei se fossi…? Il personaggio di un racconto, di inchiostro, o uno di luce sullo schermo. Cosa potrei mostrare di me? Questa passeggiata verso casa, forse, sarebbe una scena narrabile. Poco interessante, non lo so. Ma sicuramente narrabile, in un modo o nell’altro. Poi, alla passeggiata dovrei aggiungere qualcosa, degli eventi, degli scarti. Per catturare l’attenzione. Forse dovrei anche ricalcare, magari esagerare, i tratti del mio carattere che mi sembrano più importanti. Dovrei far capire al lettore o allo spettatore chi sono io. Introducendo, ogni tanto, tramite la parola “penso”, delle digressioni che facciano leggere quel che penso. Oppure, sullo schermo, una voce fuori campo potrebbe fare il lavoro di queste digressioni. Incapsulare i miei movimenti, i miei passi, i miei pensieri, questa strada, dentro una scena.

Per prima cosa, dovrei parlare del mio problema coi soldi. Anzi… anzi no, perché a quello non ci penso proprio così. Quello genera sensazioni, frustrazione e malessere, non genera pensieri. Dovrei partire, per essere proprio il più possibile veritiero, dal parlare delle cose a cui penso più spesso. Penso sempre a quello che dovrò fare. Soprattutto quando cammino o sono sull’autobus. Quindi dovrei partire col dire “penso che devo andare al supermercato”, una frase del genere. E da lì, potrei cominciare. È strano, però. Perché mentre cammino io guardo, anche. Guardo molto, mi giro intorno, fotografo le strade, la gente, i negozi. Mi muovo su due binari, in effetti. Uno è quello del pensiero, che è un pensiero molto pratico; l’altro è quello della vista e degli odori, che è piatto e silenzioso, il più delle volte. A dire proprio le cose come stanno, ci sarebbe pure un altro binario, il più attivo di tutti: quello delle canzoncine. C’è sempre un tappeto di canzoncine da pubblicità, ma non solo, sopra il quale scorrono gli altri pensieri. Manco me ne rendo conto, tanto ci sono abituato, ma c’è. Pure quando ascolto la musica, cogli auricolari, mentre cammino, le canzoncine ci sono, e la musica, quella che mi entra nelle orecchie per vie meccaniche, la sento come guardo le strade, la gente, e i negozi, con silente piattezza, diciamo. Quindi, ho parecchi scenari di fronte.

La camminata potrebbe essere una specie di viaggio percorso tutto dentro la mia testa, potrebbe essere la scusa. Tanto per iniziare il racconto, con una frase che non cali direttamente nei pensieri, che dia il senso della realtà, e sia tangibile. Per quanto le parole possano essere tangibili e dare il senso della realtà, cosa più facile se si scegliesse il mezzo dello schermo televisivo. Iniziare dicendo, “camminavo, ero per strada, andavo da qualche parte”. Magari metterci pure una descrizione, minima ma visiva, dello spazio intorno. “I palazzi erano grigi”, ad esempio. “La strada ampia mi si apriva senza fine all’orizzonte”, molto epico come incipit. E bisognerebbe anche, per raccontarsi, trovare un motivo, un senso, una ragione di fondo? Cioè, non una morale. Neanche una esigenza, né un’impellenza di scrivere, non la necessità di fare della vita, di me, una storia per poterla meglio comprendere, o astrazioni di simile portata. Ma un significato ulteriore dietro quello delle parole, quello chiaro e manifesto delle parole, una sorta di allegoria; serve per raccontare una camminata? Oppure il senso di raccontare una camminata è, proprio e banalmente, raccontare una camminata?

Le parole semplici divengono poesia (che è il modo dei poeti per dire che divengono interessanti), se lo sguardo del poeta le illumina di sole (che è il modo per dire che la differenza fra realtà e finzione letteraria la decide il gesto stesso di scrivere la realtà, di per sé significato e allegoria, più o meno). Lo dice Saramago in una sua poesia. Uma pessõa bebe o leite. Latte e piadine, ricorda. In frigo dovrebbe esserci mortadella, tre fette sottili di mortadella col pistacchio. Posso farmi la piadina con la mortadella. E se prendessi pure qualche birra, che ne dici? Ce ne sono in offerta. C’è la Fawxe, in lattina, costa poco. Non finiranno i soldi per qualche birra, avanti. Certo, ci sarebbe da comprare il tabacco, e le cartine. Dio Cristo dioso, iniziano addizioni e sottrazioni.

Commercialista. Tabacco, birra, fagioli, couscous, cornetto, zucchine. Poesia nelle parole, giornali alla mattina. Forse, in fondo, non lo compro il latte, tanto non ho biscotti, e quelli sicuro non li prendo. Così compro la birra senza ripensamenti, e banchetto a piadina, mortadella e birra. Poi a un certo punto dovrei interrompere il flusso di pensieri, e tornare sulla terra. Tipo, sono passato di fronte al supermercato, ci sono passato senza fermarmi, per poi ricordare che dovevo fare la spesa. Pensando e camminando, avevo perso di vista piadina, mortadella e birra. Dentro è mezzo deserto, illuminato da luci bianche, freddo nell’area surgelati, una sola cassa aperta. Non prendo il carrello, ce la faccio senza. Vado alla cassa, pago. La cassiera, che conosco, o meglio, che ricordo in quanto cassiera del supermercato, è una ragazza della mia età, all’incirca, col piercing al naso, e i capelli neri raccolti, da lavoratrice, in una coda alta. Di solito, pure quando sono aperte tutte le casse, cerco sempre di andare da lei. Mi guarda, chiede se voglio una busta, io le rispondo “sì, grazie”.

Nell’ascensore mi guardo allo specchio, mi atteggio, faccio il figo, delle smorfie; nell’ascensore è come se mi scaricassi di dosso tutta la pesantezza di essere un tipo dal forte senso del pudore. Eufemismo per dire che sono imbalsamato, in pratica. Neanche a casa, anche se sono solo, mi lascio andare. L’ascensore, non so per quale motivo, è dove riesco con disinvoltura a fare il pazzo. Comunque sono a casa, ho poggiato lo zaino sul tavolo, ancora apparecchiato col piatto di ieri sera. Metto subito la padella sul fuoco, esco una piadina, in frigo, come ricordavo, c’è mortadella, apro la birra, e aspetto sorseggiando e leggiucchiando un libro sul divano. Se accendessi la televisione, adesso, mi sentirei come mio padre e mia madre, nei momenti prima del pranzo, abbandonati sul divano, a fare considerazioni pungenti su Antonella Clerici. Se accendessi la televisione, guarderei pure io Antonella Clerici, ché ancora non è iniziato il telegiornale. Ancora non ho detto che mi spiacerebbe sentirmi come i miei genitori che guardano Antonella Clerici. Però a chi leggerà la storiella sarà chiaro che era proprio questo che intendevo. Perché l’immagine del corpo, moscio, intorpidito di fronte allo schermo, non so, è di per sé triste, senza bisogno di fronzoli. (Pure i genitori; e la paura di essere come loro, è tipica di per sé.) Accendo la televisione, e tengo il libro ancora sulle gambe, aperte, e ogni tanto leggo una riga, ma vengo rapito dai ravioli ricotta e spinaci, e dai cuochi che proclamano le loro ricette usando una specie di plurale maiestatis. Prendiamo il nostro pollo, tagliamo le nostre cipolle, lessiamo le nostre patate, spegniamo il nostro forno, chiudiamo le nostre bocche, assaggiamo la nostra pasta, saliamo la nostra acqua. Forse gli dicono di parlare così solo ai cuochi in televisione. Magari perché rende partecipe il pubblico, cioè il pollo le cipolle, le patate e il forno sono del cuoco e del pubblico, in condi-visione. Condire, come i cuochi, visione, come la Prova del Cuoco. Giochi di parole. Non credo che un cuoco, mentre cucina per i fatti suoi, parli in questo modo. Alziamoci dal divano, beviamo un goccio di Fawxe, dopodiché avviciniamoci ai fornelli, e controlliamo il grado di cottura della piadina. La nostra piadina è pronta, guardate che meraviglia, se solo poteste sentire il profumo, mamma mia. Nel frigo abbiamo la nostra mortadella, precedentemente affettata, e la riponiamo adesso dentro la piadina, ecco, così; non ci resta che chiuderla… llà, e gustare la nostra piadina, magari accompagnata da una buona birra in offerta!

Dal tavolo dove mangio, guardando fuori dalla finestra, si vede un condominio. Sempre, quando sono seduto qui, sbircio le finestre degli altri. Ho sempre paura che quelli mi vedano. Ma a volte mi accorgo, passando da lì per caso, e lanciando senza intenzione uno sguardo, che pure loro guardano me. Quindi, alla fine, vaffanculo, ci guardiamo a vicenda, se non avessi la televisione potrei vedere voi in diretta. Una delle finestre è abitata da studenti più grandi di me, o forse giovani lavoratori, che stanno sempre a fumare. Fumano di continuo, appoggiati al davanzale, e hanno con loro una fila di posaceneri, giustamente, perché la produzione di cicche è copiosa. Non ho capito bene se sono in quattro o in tre. Forse c’è uno che è solo un amico, e a volte va a trovare gli altri, non saprei. La notte rimangono svegli fino a tardi, sul tavolo il limoncello, e la mattina le serrande sono calate fino alle dodici. Io sono la vecchia pettegola di via del Corno. Forse, considerate le loro abitudini non tanto regolari, alquanto nottambule, non sono giovani lavoratori, ma fuorisede spiantati. Forse sono una banda di criminali, perché una volta ne ho visto uno, di sera, appoggiato al davanzale, che teneva in mano una cosa grigia, e pareva una pistola. Ma magari era l’accendigas. All’altra finestra ci sono due ragazze, queste studentesse di sicuro, non fumano, parlano molto spesso al telefono, soprattutto di sera, e poi studiano come indemoniate. Sono sempre in pigiama. Vanno a letto presto, prima di me, e si alzano al mio stesso orario. Loro, guardano spesso dalla mia parte. E la bruna, certe volte, mi sorride leggermente. Ma forse è solo una mia impressione. Comunque mi capita di invidiarli, a quelli delle finestre di fronte, perché vivono in compagnia, mentre io sono solo, e dopo un po’ la cosa pesa, anche se non è così male come sembra. Il problema non è la solitudine, il silenzio, la noia. Il problema, non lo so bene quale sia, ma alle volte mi pesa.

A questo punto, sento sorgere, impellente, in me una domanda: dove voglio arrivare? Insomma, ho la sensazione di dover finire questa storia, chiamiamola storiella, perché la struttura me lo impone. Perché troppo lunga sdegna. Il finale è: io mentre mangio la piadina, e guardo le finestre dei vicini. Mastico, mi pulisco col tovagliolo, la ragazza bruna guarda anche lei, verso di me, pare sorridere, e si aggiusta i capelli dietro un orecchio, poi scompare dentro la casa, inaccessibile alla mia vista. Bisogna lavorarci, però può andare.

Ma il finale vero, in realtà, lo avevo già programmato, e non era questo. Questo qui della bruna, di noi che ci guardiamo, è carino; ma cosa c’entra con la storiella? Era, invece, proprio l’impasse della domanda “dove voglio arrivare?” a costituire, nella mia fantasia, la conclusione di una cosa sconclusionata. Tendo a rendere armonica la vicenda, conclusione sconclusionata, pure questa me l’ero pensata prima, mentre scrivevo la prima frase. Penso: “dove voglio arrivare?”, è la domanda più stupida che si possa fare. Però suona bene, e suona stranamente definitiva, come se nella domanda fosse intarsiata già la risposta, è una domanda da fare in sogno, ma invece ce la poniamo, bene o male, tutti quanti da svegli. È un punto di partenza, o è un punto di arrivo, ‘sta domanda?

Così, mentre io, pulito il piatto dalle mollichine, mi alzo e vado per lavarmi i denti, e poi prendo il caffè e fumo una sigaretta, finita ormai la storia, come l’attore di teatro, quando lo spettacolo finisce, o il pagliaccio, che fuma fuori dal tendone dopo i suoi numeri, e mentre la bruna, anche lei, smonta tutto, si strucca, si cambia di vestito e torna a casa, la sua vera casa, e il palazzo di fronte dissipa come fiaba, crolla, ed è smontato dagli addetti alla scenografia, io metto a dormire questa storiella con la pulce nell’orecchio, e le chiedo: “dove voglio arrivare?”.

Devo fare, per ultimo, i miei ringraziamenti a Charlie Kaufman, che ha scritto Ladro di Orchidee, per avermi ispirato.

Simone Massara

 

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *