Prendersi cura l’un l’altro e l’amicizia tra una ragazza e il suo cane: «Un finale diverso» è il racconto di Caterina Nori

Illustrazione di Vecchia Jane
«Senti qua! Sto leggendo su internet storie di cani soppressi» dice Silvia, con gli occhi incollati allo schermo del telefono. «C’è questa Titti24 che scrive che il suo meticcio di quindici anni è campato un anno in più con la chemioterapia.»
«Smettila di leggere ’ste cose! Va’ a farti una doccia, piuttosto» dico seccata. Apro la finestra alle sue spalle e lascio entrare un po’ di luce nella stanza buia.
«Invece questo Alexthebest scrive che per il suo Ernesto non c’è stato niente da fare. Non ha risposto bene alle cure” continua, concentrata. «Forse sarebbe stato comunque tempo perso.»
Non è con me che parla. Mi siedo accanto a lei, sul bordo del divano, mentre legge storie di persone sconosciute con nickname ridicoli che hanno deciso di sopprimere cani altrettanto sconosciuti con nomi certo più riusciti.
«Hai ancora dei dubbi?» le chiedo.
«Tu non ne avresti?! Certo che Gesù Cristo fa proprio un lavoro del cazzo.»
Sono giorni che non pensa ad altro. Alza la cornetta del telefono, compone il numero e mette giù senza dire una parola. Mi fa vedere le foto, mi elenca le percentuali di cani che muoiono di tumore, mi descrive i sintomi. Ha già visitato tutte le pagine web possibili, in cerca di dati, chiarimenti, vie d’uscita.
«Però ci sono anche casi fortunati. Magari noi siamo tra quelli» dice, con voce infantile.
«Magari.»
Da un mese la sveglia di Silvia suona alle 5:30, quando fuori è buio e la brina sui tetti delle case non si è ancora sciolta. Si alza, cerca alla cieca le ciabatte sparite sotto al letto, beve un sorso d’acqua. Quando esce fuori in giardino, parla piano, come se stesse cullando un bambino. È ormai giorno e lei è uscita da un pezzo, quando mi chiama. A scuola, dove lavora, è ora della ricreazione. Sento un berciare di gente, giovani schiamazzi che coprono la sua voce: «Come sta?» mi chiede. «Hai trovato la lista che ti ho lasciato sul tavolo?»
Da un mese la vita di Silvia è scandita dal dosaggio attento di pillole di forma e colore diversi. Le mette in fila sul tavolo, in ordine di grandezza, come quando da bambina separava le caramelle alla fragola da tutte le altre. Quando è certa di non averne dimenticata nessuna, prende un cucchiaino, nasconde le pasticche nella carne umida, si abbassa all’altezza di Buc e lo imbocca. «Anche oggi sei stato bravo» dice, carezzandogli il muso gonfio e purulento.
Io li guardo e penso al giorno che Buc è entrato in casa. Silvia aveva quasi tredici anni. Ogni agosto, al dieci del mese, aspettava la fiera che si teneva in occasione della festa patronale. Non le interessavano i vestiti o le case di bambole. Voleva un cane e siccome non poteva averlo, cercava surrogati che però morivano o la tediavano presto. Un anno prese due pulcini che fecero la fine che fanno tutti i pulcini. L’anno successivo fu la volta di un coniglio bianco dagli occhi rossi, Tippete, che mangiò uno stuzzicadenti e soffocò. Pappagalli, pesci rossi, tartarughe, perfino un gatto dal pelo arruffato, spaurito e ostinato. Si fiondò dal terrazzo di casa con fare acrobatico e scappò via. Lei non lo rincorse, ma mi ricordo che pianse.
«È una maledizione! Perché tutti gli animali che prendo fanno una brutta fine?» aveva detto poi, seria.
Perché sentono che non li desideri veramente. Non è loro che vuoi» avevo risposto io, di getto. Qualche settimana dopo prendemmo un cane. Non ci fu, quell’anno, surrogato che tenne.
Ad aprile dello scorso anno Buc è stato operato per un melanoma maligno del cavo orale. Ora, quasi un anno dopo, ha di nuovo masse ulcerate in bocca come grappoli d’uva maturi, difficoltà a urinare e respiro affannoso. Con il collare elisabettiano sembra un vecchio duca dal colletto bianco. Il veterinario è stato chiaro: «È come una coperta troppo corta: vai a coprire da una parte, finisce che scopri dall’altra».
Il giorno che Silvia decide che è arrivato il momento è martedì. Il rituale della mattina si ripete identico a quello dei giorni precedenti. La sveglia non suona perché alle 5:00 Silvia è già in piedi in giardino. Sento la sua voce flebile farsi a ogni parola più calda. Resta lì a lungo. Non sento quello che dice, ma mi sembra che rida. Immagino che stia ricordando con Buc di quella volta che, ancora cucciolo, scappò nel pollaio dei vicini e finì per mangiare un intero canestro di granturco. Se ne liberò qualche minuto dopo sulla soglia della porta di casa, con totale scioltezza. Oppure gli sta raccontando di quell’aprile fiabesco in cui venne giù neve a palate e di come lui, a palate, tentasse di mangiarne. Forse, penso, è andata ancora più indietro, alla storia di quanto a lungo lo abbia desiderato e di come abbia scelto il suo nome. Gli sta parlando di Buck, il cane salvato da John Thornton in Il richiamo della foresta. Le piaceva il libro, ma non accettava che Buck alla fine tornasse dal branco dei lupi. «Che razza di finale è?!» diceva in lacrime. Lei era la cacciatrice d’oro che lo aveva trovato e che, prendendolo con sé, ne aveva fatto un amico, perché non tutti gli uomini sono malvagi. E lui, di rimando, aveva studiato gli orari dell’autobus di ritorno da scuola, il rumore dei suoi passi, l’umore della voce.
Il martedì scelto da Silvia è un giorno di sole. Il cielo di marzo è terso e tira un vento leggero. Quando più tardi le avrei chiesto perché, di quella settimana, avesse scelto proprio quel giorno, lei mi avrebbe risposto: «Avevo visto il meteo. Volevo che vedesse il sole per l’ultima volta».
Nell’ambulatorio veterinario, però, le luci sono fredde e c’è puzza di sterilizzante. Andiamo io e lei, come il primo giorno, quando abbiamo scelto Buc e lo abbiamo portato a casa. Era l’unico beagle color bianco arancio tra tanti cuccioli a tre colori. Silvia non aveva avuto dubbi. «Guarda, ha uno smile sul dorso, mi sorride!» aveva detto, prendendolo e stringendolo a sé.
Dopo mezz’ora di attesa veniamo chiamate. Silvia toglie il collare a Buc, che perde la sua aria regale e la segue per il corridoio trascinando le zampe. Loro avanti, io dietro. Quando entriamo, l’infermiera le chiede cosa ne vuole fare della salma dopo la procedura. Silvia resta lucida, dice che ha già pensato a tutto. Si sta sforzando di non piangere perché ha letto su internet che il cane non percepisce la propria morte come l’uomo, che non c’è resistenza o rimpianto, bisogna restare sereni perché lo siano anche loro. Buc si divincola, si guarda intorno curioso, mentre Silvia lo tiene a sé, gli chiede scusa, ripete il suo nome.
«È la scelta migliore che potessi fare a questo punto» dice l’infermiera quando Buc si è calmato. «Ti capisco, l’ho fatto anch’io con la mia gatta» e procede con l’anestesia. Buc a poco a poco comincia a perdere i sensi. Silvia gli resta accanto, viso contro muso. Continua a pronunciare il suo nome, ad accarezzargli le orecchie. Piango anch’io, nell’angolo della stanza, di un dolore che non pensavo potesse essere mio. Dall’iniezione del farmaco passano pochi minuti, poi il respiro si ferma.
«Mi dispiace tanto» dice l’infermiera. Si volta verso il veterinario e aggiunge: «Ora del decesso di Buck, 17:10». Il veterinario annuisce e fa per allontanarsi dalla stanza.
«Aspetti,» lo ferma Silvia, «Buc senza cappa, per favore» dice. Poi poggia la testa sul corpo ancora caldo e piange. Rivedo la ragazzina di tredici anni che lo chiama per la prima volta: «Buc come nel libro, ma senza cappa perché per noi voglio un finale diverso» aveva detto, presentandogli la sua nuova casa.
Caterina Nori