Gli uomini non piangono e da una poltrona guardano la vita passare: «Tipica serata del sig. Mario Rossi» è il racconto di Francescopio Venosi

 Gli uomini non piangono e da una poltrona guardano la vita passare: «Tipica serata del sig. Mario Rossi» è il racconto di Francescopio Venosi

Illustrazione di Vecchia Jane

Sprofondai nella poltrona, col calice di vino rosso in una mano e il telecomando nell’altra. Era la soluzione perfetta per chiudere la giornata con il botto. Funzionava tutte le sere. Rita era rimasta in cucina a sistemare i piatti nella lavastoviglie. Che poi non riuscivo mai a capire perché li sciacquasse prima di metterli nella lavastoviglie. La lavastoviglie lava le stoviglie. È il suo scopo, il motivo per cui è stata inventata: se non fai lavare le stoviglie a una lavastoviglie, perché continui a tenerla in casa? Perché te la sei fatta regalare?

Mentre ci ragionavo, il pollice si spostò in automatico sul pulsante rosso del telecomando. Sullo schermo apparve il solito conduttore dalla faccia plasticosa, vestito di tutto punto, intento a presentare il solito gioco a premi che puntualmente non vinceva mai nessuno. «Chissà se partecipassi io», pensai. Primo sorso di vino, slurp. Primo partecipante: un ragazzo stempiato, sulla trentina. Occhiali squadrati estremamente spessi. Sguardo sicuro, sorrisino fastidioso. Sluuurp. «Perderà» pensai. «È troppo sicuro di sé.» Ero bravo a interpretare le persone: lo facevo tutto il giorno a lavoro. Facevo il casellante e non c’era passatempo migliore che giudicare silenziosamente chiunque passasse al di sotto della sbarra. Sluuuurp. Quella mattina, per esempio, avevo incrociato la coppia peggio assortita che avessi mai visto: lei bionda, sguardo di ghiaccio, labbra rosso fuoco, gambe lunghe, fin troppo consapevole del suo fascino; lui basso, stempiato, cicciotto, un neo grande quanto una fetta di salame sulla punta del naso. Cosa poteva accomunarli? Cosa poteva spingere lei ad andare a letto con uno così? Forse non si trattava neanche di una coppia. Io li giudicavo e magari loro facevano lo stesso con me, magari pensavano: «Chissà perché questo stronzo fa questo lavoro» oppure ancora: «Chissà perché questo stronzo basso, stempiato e cicciotto fa questo lavoro». Sluuuurp. Lui doveva essere sicuramente ricco. Chissà se le aveva mai regalato una lavastoviglie. Che poi San Valentino si stava avvicinando e non sapevo proprio dove sbattere la testa. A Natale avevo regalato a Rita una collana. Al compleanno una borsa. All’anniversario la lavastoviglie, per l’appunto. Era così difficile reinventarsi. Tempo fa mi aveva parlato di quanto desiderasse trascorrere un fine settimana fuori. Quando me lo disse, pensai che fosse un’ottima idea. Subito dopo realizzai che sarebbe stato impossibile: chi ce l’aveva il tempo? Io dovevo fare il casellante, lei doveva fare il suo. Poi, ammesso che saremmo riusciti a trovare il tempo, chi si sarebbe occupato di Flavio? Per quanto mi riguarda sarebbe potuto venire con noi, ma i giovani di oggi evitano di stare con i genitori. Chi li capisce. Dicono che hanno sempre da fare e poi li trovi sempre in camera con il cellulare in mano. Sluuuurp.

Io passavo intere giornate con il mio vecchio: giocavamo a pallone, a nascondino, a fare la lotta. Mi ha insegnato a usare il trapano, a stuccare, a riparare, ad arrangiarmi. Mi ha insegnato a bere e a reggere l’alcol. Mi ha insegnato a guidare. Mi ha insegnato che gli uomini non piangono. Sluuuurp. Lo ricordo bene, quel giorno. Eravamo al parco a fare due tiri: mi passò la palla col dorso del piede e la lanciò per aria. Feci per colpirla di testa ma la mancai di poco e finii per cadere e sbucciarmi le ginocchia sulla ghiaia. Un dolore atroce. Non riuscii a trattenermi, ma lui mi prese da parte, mi asciugò le lacrime, mi guardò negli occhi e mi disse che non avrebbe mai più voluto vedermi così. Mai più. «Impara adesso che gli uomini non piangono» disse. E così non piansi più. Neanche al suo funerale, lo ricordo bene: mi avvicinai alla bara per salutarlo e gli sussurrai: «Non ho pianto. Sono stato bravo?». Sluuuurp.

Ogni tanto mi è capitato di chiedermi se Flavio piangesse, o se l’avesse mai fatto prima d’ora, ovviamente senza considerare i pianti accumulatisi nei primi quarantotto mesi di vita; e senza contare quelle volte in cui pianse perché si era pisciato addosso. Il punto era che l’avessi sempre trovato sensibile, forse troppo. Ho cercato più e più volte di crescerlo seguendo le regole che avevo imparato da mio padre, ma non è mai sembrato funzionare: gli ho insegnato a usare il trapano, a bere, ad arrangiarsi; lui mi ha sempre detto di non essere tipo da trapano, e che gli sarebbe piaciuto fare lo scrittore. Sluuuurp. Dovrebbe fare qualcosa di più concreto. La verità è che tutti noi abbiamo dei sogni, ma arriva il momento in cui bisogna darsi una pacca sulla spalla e accettare la realtà. Io l’ho fatto al mio tempo ed è così che sono finito a fare il casellante. Non l’ho deciso io. No. La vita in fondo è questa: nasci, cresci, ti diplomi, ti iscrivi all’università, la molli dopo un anno, ti fidanzi, fai il casellante, ti sposi, fai il casellante, fai un figlio, fai il casellante, regali una lavastoviglie a tua moglie, fai il casellante, passi le sere sulla poltrona. Sarebbe terribile guardarsi intorno, rimuginarci sopra e scoprire che per tutta la vita uno non ha fatto altro che accontentarsi. L’uomo che si accontenta è colui che rinuncia ai propri sogni. Ci pensai e ci ripensai; corrispondevo alla descrizione. Non so di preciso cosa mi prese, mi sentii sprofondare ancora di più nella poltrona, come se all’improvviso la pelle rossa sulla quale poggiavo si fosse liquefatta e mi bloccasse in una marea vischiosa. Raccolsi le forze e balzai in piedi con uno scatto, con il calice ancora saldo nella mano. Sluuuurp. Vuoto.

Mi voltai verso la poltrona ma era tornata al suo normale, ben più comodo, stato solido. Mi girai allora verso la cucina: dalla stanza buia e vuota arrivava solo timido l’odore di detersivo per piatti. Rita doveva essere andata già a letto, senza salutarmi, senza dirmelo. Probabilmente mi era passata a fianco e non me n’ero neanche accorto. Mi sentii dannatamente stupido. «Dovrei trattarla meglio» pensai. «Dovrei trattarla meglio perché lei mi ha sempre trattato bene, nonostante io sia uno stronzo basso, stempiato e cicciotto» aggiunsi. Spostai lo sguardo verso lo schermo della tv che continuava a brillare: il volto del conduttore si era smaterializzato in una miriade di luci colorate e coriandoli. Il ragazzo aveva vinto il premio e si gongolava tra gli applausi degli spettatori, mentre i titoli di coda scorrevano veloci. C’è una fine per tutto, anche quando si vince. Allora perché non partecipavo mai? Se inevitabilmente la mia faccia verrà un giorno coperta dai nomi di produttori e artisti di make-up che hanno lavorato dietro le quinte di questo gigantesco gioco, allora perché dovrei impedirmi di vincerlo? Se partecipassi ioSe… Tirai un profondo sospiro. La mia faccia si sovrappose a quella del ragazzo, poi a quella di Flavio, di Rita. Spensi la tv, mi lasciai cadere nuovamente sulla poltrona che mi accolse come aveva sempre fatto, e a quel punto mi sembrò l’unica certezza rimasta. Le guance si fecero roventi, con una pressione dietro le iridi. Rividi le mie ginocchia sbucciate e lo sguardo severo di mio padre, autoritario e perentorio. Mi ero dimenticato cosa si provasse a piangere; ma non feci in tempo a ricordarlo del tutto che mi addormentai di colpo.

Francescopio Venosi

Blam

Articoli Correlati

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *