Quante assenze ci sono in una mente in bilico? «Senza di te» è il racconto di Umberto De Tomi
Illustrazione di Josephine Tomarchio
Se tu andassi alla biblioteca in centro, in questo momento, troveresti Agnese che recita una filastrocca. Potresti sederti in uno dei posti liberi: giù in fondo, vicino alla porta – non ce ne sono altri, la sala è piena. Potresti finire in questa sala per caso, perché cerchi un libro come facevi una volta, o proprio di proposito per andare a sentire tua figlia Agnese che recita la filastrocca. Allora la vedresti, lì sul piccolo palco, vicino a quella donna che non conosci ma che, ascoltando qualche minuto lì in piedi oppure seduto, scopriresti che è l’autrice del libro della filastrocca. Un libro per bambini, di quelli che i genitori comprano per leggerli insieme ai figli: in copertina c’è un prato verde con una coccinella – eccolo lì il libro, è aperto in piedi sul tavolino vicino a tua figlia. Lo vedresti, se fossi lì.
Potresti vedere tua figlia che recita la filastrocca che ha mandato a memoria, non proprio perfettamente ma poco importa – fa quel movimento tipo balletto dei bambini che recitano le poesie, se fossi lì proveresti a ricordare se lo facevi anche tu. Ha addirittura un costume rosso da coccinella, diresti okay magari questo è troppo, ma poi te lo faresti andar bene e comunque ha già finito, non era una filastrocca lunga.
Se tu fossi lì, a questo punto sposteresti un po’ lo sguardo a sinistra: ecco Simona che sorride con le braccia conserte, e dal labiale vedi che la sa anche lei, la filastrocca. È come la ricordi – anzi no, non è vero. Sembra un’altra persona, anche se è sempre lei: lo vedresti che è sempre lei, ci hai vissuto insieme per due anni, ma sembra un’altra persona. Più in carne, con il viso più rotondo, in quel modo che fa dire alla gente cose tipo sembra come rinata. Tu non lo diresti, non diresti che sembra rinata a qualcuno di quelli che sarebbero lì vicino a te, perché sarebbe come dire che senza di te tutto è andato meglio.
Però è una delle cose che pensi, adesso, di quelle che dici allo psichiatra che passa ogni giovedì mattina e che ti ascolta con quella faccia che non capisci cosa sta pensando. Magari sta pensando a cosa mangerà per pranzo, o a quanto sei patetico lì, in quella stanza singola senza oggetti contundenti e la finestra senza maniglia per aprirla. Ti ascolta e sembra uno di quei testoni di pietra dell’isola di Pasqua: ha la stessa espressione, così quando dici qualcosa come alla fine stanno meglio senza di me, la cosa resta lì nell’aria senza un giudizio. Resta lì e risuona come se l’avessi detta troppo forte; allora provi a ricordare se l’hai detta troppo forte, ma tant’è.
Come quando gli hai detto, al testone dell’isola di Pasqua, che però la cocaina piaceva pure a lei – a Simona. Quella volta il dottore ha fatto perfino il gesto di segnare un appunto veloce sul blocco che teneva in mano, da non crederci. Poi ti ha rinnovato la terapia su un altro blocco, quello delle ricette, e buona notte al secchio. Buona notte al secchio, quando ti chiedi perché si dice così ti immagini un vaso da notte: il tipo di oggetto che pensavi di trovare in una stanza come questa, quando ti ci hanno portato. Ma adesso sai che lo troveresti solo nella versione di cent’anni fa di una stanza come questa, qui è tutto moderno.
Se invece fossi lì, nella sala gremita della biblioteca, vedresti accanto a Simona una donna più anziana: è la mamma di Simona, tutta fiera della nipotina che a sette anni ha imparato la filastrocca e la recita muovendosi in quel modo, quello dei bambini che dicono le poesie.
La vedresti e ti verrebbe in mente di quando è venuta a prendersi sua figlia e tua figlia: è entrata in casa con qualcuno che chissà chi era, un tipo grande e grosso che nella sua testa magari doveva servire per tenerti a bada – ma tanto eri nella fase sedativi, mansueto come un capo di bestiame, gonfia lingua bovina incapace di protestare. Figurarsi opporre resistenza: se ci pensi ti immagini due sbirri che ti tirano per le braccia mentre cerchi di tenerti quello che è tuo, famiglia dignità eccetera, ma era andata molto più liscia di così. Tempo due minuti e ti eri trovato da solo, nella stanza spoglia tranne il tavolino di vetro con sopra i blister e tutto il necessario per il consumo di un certo numero di altre sostanze. Oggetti criptici, ne sei certo, agli occhi della mamma di Simona e del tipo grande e grosso, che erano lì a parlare troppo forte e a fare gesti esagerati con la faccia e con le braccia – te li ricordi, e ti ricordi che hai pensato solo a cosa potessero sembrare, ai loro occhi, quegli oggetti misteriosi. A cosa potessero servire, se non a fare a pezzi un’esistenza.
Se fossi andato lì, alla biblioteca, probabilmente ci saresti andato in macchina: poi su quella macchina sarebbero salite la bambina e Simona, e sareste tornati a casa. Ma la casa non c’è più – c’è, ovviamente è ancora lì con i muri e le finestre che adesso hanno le persiane alzate, ma non è più vostra. Ve l’avevano comprata i tuoi genitori, ecco una cosa che puoi raccontare al faccione dell’isola di Pasqua: non gliel’hai ancora detto, può essere un’idea per la prossima volta che sei lì senza sapere cosa dire e lui certo non è d’aiuto. L’hanno comprata e poi l’hanno rivenduta, dopo averla sgombrata da tutti quegli oggetti che per loro non devono essere stati tanto criptici – li avevano già visti diverse volte in camera tua, questo l’hai già detto al dottore. Gliel’hai già detto che i tuoi genitori credevano che saresti cambiato, con la famiglia e tutto. Il potere della negazione: quando l’hai detto hai pensato che era bello usare un termine così, da psicologo, ma lo psichiatra si è limitato a fare un’altra volta un segno sul blocco, da non crederci.
Invece non ci sei andato, non sei andato alla presentazione del libro, nemmeno sai che c’è stata. Non puoi andarci perché devi stare lì. Devi stare lì e intanto puoi fare cose diverse, diverse da guidare la macchina con dentro Agnese e Simona: magari puoi aspettare che passi il dottore dell’isola di Pasqua, o l’assistente sociale – lei è più gentile, solo che ti ricorda tua mamma. Tua mamma prima che diventasse così fredda, chissà perché. Tuo papà lì proprio non ci viene, ci vediamo quando starai meglio.
Puoi fare altre cose mentre sei lì, come sbattere la testa contro il muro, in questi casi di solito arriva l’infermiera – lei ti ricorda Simona, cara comprensiva Simona. Allora sbatti la testa contro il muro: sistemi la sedia alla giusta distanza, e si parte.
Umberto De Tomi

