Oleandri: un racconto di Nicole Trevisan

 Oleandri: un racconto di Nicole Trevisan

Illustrazione di Elisa Francioli

Antonio ha una cosa nell’occhio. Se la sfrega via col dorso della mano, ci resta la coda di una lacrima. Lenta, si incammina verso il polso. Lascia una scia d’argento sulle vene, è una lumaca. È la luce, che decade e non lo aspetta, tinge la nebbia di rosso e gli si conficca sotto le palpebre, una spina. Una punta di gramigna. È ora di rientrare.

Quando stacca lo stivale dal fango, non lascia tanto l’impronta, quanto la sagoma del piede, che è diventato bitorzolo, come una delle barbabietole: ci ha messo le radici anche lui, nell’orto. È così che si finisce, alla sua età: una tra le possibili declinazioni di vegetale. Torniamo a casa, esala: vapore di quiete morente che sente incollarsi al baffo.

Dall’orto al giardino, il confine è una siepe di oleandro, linea nera di foglie aguzze, sgraziata. È una pianta determinata, che resiste: come lui. In primavera mette i fiori, si copre di petali bianchi, e quante volte li ha strappati dalle fauci di Milla e quante dalle manine di Valentina, perché nessuna delle due sapeva di cogliere veleno e voleva mangiarselo. Una rideva, l’altra si avvitava in cerchio, saltellando come se fosse stato uno scherzo.

«Me gavì fato deventar mato» brontola, e la nebbia tace, tace sempre. Non c’è più nessuno a rispondergli. Tanto vale continuare a parlare.

All’angolo, in fondo al giardino, si era ritorta una pianta. Un’antriga, aveva constatato, il mattino in cui l’ha vista, infilando i guanti da saldatore. Mai toccare le antrighe: ricorda di averlo insegnato ai nipoti, e ce ne fosse uno che gli avesse dato retta, che non fosse arrivato ai margini di un pomeriggio grattandosi a sangue, sfregandosi alle pareti come un orso, piangendo perché non passava, quel prurito, il dispetto delle ortiche. Era stato lui a ridere, quella volta. I guanti non se li dimenticava da quando era lui il bambino che aveva ignorato il buon senso per il brivido della disobbedienza. Avvicinandosi all’erbaccia, ha notato quanto fosse esile e l’ha perdonata o forse era solo stanco, che tanto a farla morire ci avrebbe pensato il sole, forse il prossimo temporale oppure il vento.

L’ha dimenticata e ci è sbocciato un pomodoro, da un semino cullato via dall’orto. Piccolo, una fregola, una biglia. Solo uno, ciliegino. Profumato, tra le rose – quelle erano state un’intenzione, un segno per non perderselo, quello straccio di terra all’angolo. Là, ci dorme Milla. Sotto agli oleandri. E pure una scarpa di Valentina, che non c’è più e non ricorda come sia successo, perché alla sua età la memoria è poca e quel che resta va tenuto insieme perché non si perda – da qualche parte, tra le erbacce; laggiù, nella terra.

 

Nicole Trevisan

Blam

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