Quante sono le maternità del cosmo? «Madre» è il racconto di Vladut Barbieru

Illustrazione di Monica Alletto
Novembre. Sono di nuovo qui, chiusa a chiave. Fuori l’autunno bussa; non lo voglio far entrare. Mi guardo rannicchiata: sono una foglia accartocciata sopra le radici del suo albero. Bussa, di nuovo. Nelle venature del bianco si va definendo l’immagine di due corpi distanti: un uomo e una donna. Parlano. L’uomo si avvicina urlando; lei trema come sorretta dalle braccia del vento. Una mano violenta li unisce per un misero istante.
Piange.
Perché piangi? Perché ti ha colpita? Guardati, sei piena di lividi. Non risponde. Perché piangi? Mi ignora. La guardo allontanarsi per sedersi sopra le coperte ruvide di un letto di paglia. In una mano un fiammifero, nell’altra una piccola candela. Nella stanza una luce inizia a dare forma alle ombre sulla parete. Un silenzio liturgico ci circonda; poi un sussurro. Sembrano parole. Cerco di avvicinare l’orecchio:
Padre nostro, nel silenzio ti cerco
io peccatore nel silenzio ti cerco,
sii la luce che spazza via le…
La luce tutta a un tratto svanisce: il buio ha divorato i nostri contorni, gli spazi, tutto ciò che c’è attorno. Dove sono ora? È quindi questo l’universo? È questa nebulosa indefinita l’origine di tutto? E questa esplosione? Sento defluire nel cosmo l’origine stessa di ogni singolo atomo e sono io a esserne la causa: sono io il Big Bang.
Come ti chiami? Mi chiamo Katia. Nel tuo nome ci sono i passi dei contadini sulle strade sterrate, lo stormire dei noci e il canto di una civetta. Nella tua voce c’è lo scrosciare delle acque, il riverbero della superficie di un lago, i sassi che sprofondano nei fondali. Cos’è che ti rattrista? Perché questo singhiozzo strozzato? Perché ti giri? Dove vai?
Guardo Katia allontanarsi, sacrificare la sua immagine al buio amorfo. Svanire.
Tu non diventerai mai monaca! Ma di chi è questa voce?
Lo capisci? Se te ne vuoi andare via da qua, sposati!
Ma non voglio. No, no, NO. Io non voglio sposarmi, diventare madre. Non voglio far nascere da questo corpo una vita. Non voglio vedere le mie membra gonfiarsi; sentire gli organi spostarsi; non voglio sputare un feto e allattarlo come una vacca che allatta il proprio vitello. Non voglio essere una balia. Non voglio. Io non sono fatta per questa vita. Voglio vivere in un monastero, essere felice di quel poco che Dio mi vorrà dare giorno per giorno.
Poi il silenzio. Il cosmo ha preso forma. I pianeti si uniscono in galassie; il Sole è ferma nel mezzo del sistema solare; la Terra gira con attorno a sé la Luna. Sospiro. Le luci del pomeriggio inondano la stanza. Mi alzo per affacciarmi alla finestra. Dinanzi a me: un giardino vivido, una cupola dorata, qualche petalo caduto per volere di una natura capricciosa: è dunque questo il monastero? È qui che tu attenderai la venuta di Cristo? Katia non risponde. Dorme. Guardo il petto alzarsi ritmicamente mentre poggia la testa sconvolta sul cuscino con accanto il testimone della sua iniziazione.
Katia, ma stai benissimo! Complimenti!
Certo che sembri una bambina… come sei bella! Ma perché non te li sei tagliati prima? E da chi sei andata? Da Tina? Lei è davvero brava. Guarda che tinta che mi ha fatto!
Tina? Perché il suo nome mi sembra familiare? E quel libro tenuto aperto sul comodino… madre Ana me ne diede uno simile. Quando me ne andai a Cluj, lei mi sorrise dicendo che mi avrebbe accolta con sé un giorno (non sapeva dirmi quando). Quel giorno è arrivato, almeno per te, Katia. Guardati ora: sei stata iniziata. Sei una monaca. Finalmente godrai della felicità terrena e so, un domani, anche di quella ultraterrena. Sei quindi finalmente divenuta madre? Sei finalmente felice di avere compiuto il tuo destino? Non risponde. Cos’è questo silenzio? Perché non sento gli angeli cantare? Perché non ci sono gli altri fedeli? E dov’è tua madre e tua sorella? E tuo padre? E quel vestito pieno di margherite tenuto davanti al corpo di una vacca… non indossate tonache nere, voi? Guardo davanti a me la vacca che tuo padre ti fece mungere sin da piccola. Muggisce.
Benedetto è il frutto del tuo seme riecheggia nella stanza.
Bevi.
No.
Bevi.
Ho detto no. Ma nel mio stomaco sento defluire il latte della vacca. Sono iniziata: nel mio corpo ora risiede il frutto generazionale, la prescrizione degli avi e la speranza dei posteri. Si avvicinano. Mi fissano.
Katia?
Cos’è questo muggito?
Katia?
Perché riesco a comprenderle?
Katia.
Chi è quell’uomo? Cosa vuole? Perché ha un machete in mano?
Katia? Katia? Un primo colpo. Ecco il sangue che va scorrendo sotto ai piedi immobili.
Katia? Ecco un secondo colpo. Il muggito è un annuncio di morte.
Katia? Carlo, Carlo, che hai!? Carlo!?
Katia, che fai? Katia, perché muggisci?
Carlo perché non mi capisci?
E poi un terzo e ultimo: il corpo smembrato: un frammento dell’inferno, la violenza del mondo.
Paolo ha fame.
Il mio corpo gonfio riflette i tratti di un’Eva gravida di stirpi. I miei seni sono due mele da cui sgorga il succo del peccato.
Ora vado. Mi alzo barcollando verso la porta. La schiudo. Mi affaccio e guardo i suoi occhi imploranti tenuti in braccio dal mio Adamo. Nutrire una vita: è questo ciò che mi rimane? Apro bocca ma ciò che fuoriesce è solo un muggito.
Vladut Barbieru