Quando la precisione è una trappola: «Le cose per bene» è il racconto di Alessandra Cella

Illustrazione di Francesca Vitolo
Un paio di colpetti sui reni coi piedi: precisi. Stai sempre in mezzo, mi dice mentre casco sul gruzzolo di briciole cadute a terra. Le avevo ammonticchiate con mano svelta. Mi tiro su carponi e dalla pelle si staccano schegge e saliva, ma lui mi tiene sotto il tavolo con il tallone puntato sulla spina dorsale. Trattengo a stento una risata, penso: ecco come ci si sente a essere un Poang. Aveva ragione lui quel giorno, all’Ikea, quando mi ha detto: scordati di spendere i miei soldi per quel cazzo di poggiapiedi. Cosa pensavo di farmene, dell’impiallacciatura di betulla? Il Lack va più che bene per le nostre esigenze, ma quali esigenze, sono solo vizi.
Ero andata in bagno con gli occhi gonfi, una mentecatta che strattona la figlia piccola per un braccio. Ti dovevi tenere il lavoro, disgraziata. La vista delle stanze perfette mi infuocava le tempie, la gente sbrodolata sui divani coi sorrisi molli, le pance avide e le pupille dilatate, tutti a ridere di me. Quando riesco a uscire da sotto il tavolo mi dice: guarda che ne hai scordata una, là, muovi il culo che il pane non si spreca.
Avanzo tutti i giorni con passi giapponesi, come dice quella poesia che ho letto ieri. Non è sempre stato così. Ci siamo conosciuti che ballavamo il tango, quando mi ha stretto la prima volta ho provato un’inquietudine dolorosa e ho creduto fosse la cosa perfetta da sentire, con il legno lucido sotto le suole e Por una cabeza nell’aria. Avrei dovuto capirlo da come prendeva sul serio la Salida basica che le sequenze e i ritmi erano tutto per lui. Io ero per le cadenze, invece, sempre più svagata.
Le cose vanno fatte per bene. Mi fa segno di sedermi sulla sua coscia, ho ancora l’ultima briciola sul polpastrello, leccala che non la sprechiamo, io mi giro e cado negli occhi atoni di mia figlia grande che è appena rientrata da scuola, butta a terra lo zaino e scappa via. Oggi lui non doveva essere a casa per pranzo, ma ogni tanto capita che torna senza avvisare. Quando è così tutti fuori, sono cose tra mamma e papà.
Il primo Natale passato da fidanzati mi aveva fatto un mazzo di fiori con le bucce dei mandarini che avevamo nel cesto, delle piccole spirali odorose perfette, è immorale buttarle, piuttosto le mangi se non le sai arrangiare. Che bel pensiero, guarda come fa le cose, chi ci mette tanta cura sa di certo che cos’è l’amore.
Lecco la briciola, ingoiala piano che fare rumore mentre mangi è volgare e adesso fuori dai coglioni. Mi muovo adagio verso il cassetto della cucina, davanti a me le macerie di Gaza e la sua schiena curva sul piatto. Estraggo il coltello della frutta come ho fatto domenica quando ero ancora in pigiama; era l’alba, ero ancora in tempo, se non fosse stato che il cane dei vicini gli ha interrotto il sonno e dopo poco me lo sono visto scendere giù. Si è avvicinato, fila a cambiarti, non si può stare in pigiama, noi non siamo dei pigri. Perdio sono le sei del mattino lasciami in pace, con il piede schiaccia il mio, parla come si deve, non si nomina Dio, ho il suo alito addosso.
Mi cade il coltello dalle mani, lui non se ne accorge perché il volume del televisore è al massimo; lo raccolgo.
Mentre avanzo alle sue spalle disegno piccoli cerchi con i piedi, le dita tremano e dalla finestra la luce mi acceca. Alzo il braccio, voglio essere precisa com’è lui, fare tutto per bene. Sono pronta, ho la punta del coltello a un niente da lui, quando la vedo: mia figlia grande è fuori, aldilà del cancello. Piange e indica la casa a due uomini in divisa. Indietreggio in un giro di danza scoordinata; non lo faccio da tanto. Era solo un amague.
Alessandra Cella