Confessioni di una donna impreparata a essere madre: «L’attesa» di Ilaria Trizio

Illustrazione di Vecchia Jane
Mestruazioni. Una parola che scritta è tabù. Anche da pronunciare è tabù. E a me le mestruazioni non erano proprio venute. Settembre del 2016: ero a Bratislava per un congresso, quello che poi sarebbe stato l’ultimo. La mia mesta uscita di scena dall’accademia. A Bratislava stavo capendo anche che non mi sarebbero venute. E che mettermi l’assorbente non avrebbe portato sangue propizio.
L’ultima sera, una tavolata di giovani ricercatori gagliardi e caciaroni brindava al passaggio a ordinario di M., al canzonato fidanzamento di R., al best poster award di F., all’ultimo co.co.co di P. tanto atteso. Non so a che brindassi io. Mi sentivo incinta. Andavo in bagno di tanto in tanto con la pretesa di trasformare in qualcosa di verosimilmente rosso quel vago alone sulle mutande. Ma non erano le mestruazioni. Avevo studiato con la dovuta nevrosi e ossessione la stadiazione dell’insediamento di quella proto-forma di vita. Fingevo di divertirmi con gli altri, mentre la morula scorreva nelle tube e andava a rimbalzare e a radicarsi nel mio endometrio rampante. L’ultima birra rossa l’avevo buttata giù con la stessa ansia di chi temeva di essere davanti all’irreversibile.
Eppure un figlio credevo di desiderarlo.
O forse trovavo erotici i fotogrammi di me madre. Fotogrammi in un cono di luce. L’abbandono indifeso di un neonato senza ancora un volto tra le braccia. Una ninna nanna dolce. Io e Luca stavamo insieme da troppi anni per non essere annoiati. E allora la naturale evoluzione delle cose aveva voluto che ci sposassimo quand’ero al primo anno di dottorato e che iniziassimo a desiderare l’idea di diventare insieme qualcosa di nuovo. E poi che potessi restare incinta. Questo risvegliava in noi un erotismo primario e animale assopito da troppo tempo.
Tornata a casa: la linea rossa. L’irreversibile: transustanziato in quel rosso come le mestruazioni mai più venute. Le beta erano schizzate impietose. La prima ecografia. Una cosa di tre millimetri che aveva messo radici dentro di me, si era già organizzata con i suoi accessori. Cosa si fa adesso? Si piange? Si ride? A me non veniva niente.
«Vuoi sentire il cuore?» aveva chiesto la ginecologa. Ero impreparata, e forse una parte di me, che si opponeva all’irreversibilità, sperava ancora in una qualche forma di autodeterminazione. Ma poi il battito: un ritmo incessante. Come poteva essere solo il prodotto di un abbozzo? Quanta pretenziosità in quei colpi che galoppavano come un purosangue nella prateria. E già sovrascrivevano la storia della sua esistenza alla mia, con un rimescolio che mi mandava in confusione.
Eccolo il mio desiderio – o no? –, eccolo fattosi materia. Anzi, già fattosi anatomia, corpo. Altro corpo. Altro corpo, dentro il mio. Che senso di estraneità. Che repulsione. Come una vertigine era sopraggiunto il sospetto paranoide che non il sentimento, quanto l’ineluttabile forza generatrice mi avesse fatta figlia prima e mi avrebbe resa madre poi. L’erotico Io si sgretolava. Hai studiato, ti sei fatta da te, ti immaginavi con un camice in un laboratorio, avviata alla carriera da ricercatrice.
Eppure un figlio credevo di desiderarlo.
Com’è sentirsi fottuta? Essere messa all’angolo? E se il motivo della tua venuta al mondo, lo scopo della tua sopracitata esistenza, fosse essere utero? Prestare un incubatore a questo virus pandemico che è il perpetuarsi della specie? Provavo il rancore di chi si scopre madre – non di suo figlio che ancora non sa chiamare – ma del genere umano nel senso etologico, nemmeno antropologico. L’imperituro rintocco della vita aveva trovato il suo posto nel mio utero.
Eppure un figlio credevo di desiderarlo.
Perché la stai mettendo in questi termini? Perché se l’hai desiderato, adesso strozzi in gola il pianto? Perché digrigni la rabbia fra i denti? Infiniti perché. Infiniti sensi di colpa. Ce l’avevo con tutti. Ce l’avevo con mia madre, con le sue battutine su quando le avremmo regalato finalmente un nipotino. Ce l’avevo con Luca che non c’era. Come non ci sarebbe stato in tante, infinite circostanze, sempre troppo impegnato o forse semplicemente incapace. Ce l’avevo con la mia frustrazione, che nascondevo sotto cappotti larghi finché ho potuto. Non me l’ero immaginata così l’attesa di un figlio. Nel cono di luce di un pomeriggio di marzo, fuori la neve tardiva, sono riuscita a farti – ormai al settimo mese – una carezza. Ti ho cantato sottovoce una ninna nanna spagnola. Con un colpo di gomito o di ginocchio hai perdonato la mia meschinità, mentre lacrime amniotiche riempite di solitudine, vergogna, amara dolcezza e di devozione mi battezzavano madre.
Ilaria Trizio