Lambrooklyn: un racconto di Simone Redaelli

 Lambrooklyn: un racconto di Simone Redaelli

Illustrazione di Francesca Galli

Fu al parco Lambro, in un freddo pomeriggio, che lo vidi per la prima volta.

Cappellino Element grigio e rosso, felpa DC nera, pantaloni Dickies arancioni. Sedeva a bordo rampa sul suo skate e pareva uscito da Santa Monica o Venice Beach. Vert, è così che lo chiamavamo.

All’epoca, tutti quelli che frequentavano lo skatepark avevano visto, almeno una decina di volte, Lords of Dogtown. Volevamo un po’ tutti essere come Stacy Peralta e gli altri Z-Boys, che eseguivano trick e acrobazie spettacolari nelle piscine dei ricchi a Beverly Hills prosciugate dalla siccità del ’75.

«Lo sapete che Vert è salito sul suo primo skate quando aveva due anni?»

«Ma se a me qualcuno ha detto che a due anni già faceva gli ollie…»

«E chi te l’ha detto?»

«Ah boh, non me lo ricordo.»

Una cosa era certa: mentre noi a tredici anni potevamo solo sognare, lui già volava. Noi a malapena ci avvicinavamo alla bowl, la paura di buttarci giù lungo quelle rampe curve era troppo grande.

«Ragazzi, guardate come grabba

«Afferrare la tavola con una mano, a quell’altezza poi, è da fuori di testa!»

Io e Dave andavamo al parco Lambro dopo scuola solo per guardarlo cimentarsi negli air più folli. Ci piazzavamo con la schiena contro la rete metallica, una lattina di coca in mano.

«Dici che farà carriera?»

«Dico che farà i soldi.»

«I soldi?»

«Vert è il nuovo Tony Hawk, te lo dico io.»

Ben presto il Lambrooklyn, così chiamavamo quelle rampe da skateboard, si riempì di curiosi. Venivano tutti per Vert. All’inizio erano solo ragazzini come noi, compagni di scuola della Maniago. Poi iniziò a venire anche qualche adulto e origliare le loro conversazioni divenne il mio passatempo.

«Questa cosa dello skate dici che arriverà anche in Italia?»

«Dico di no, non c’è cultura.»

«Non c’è cultura?»

«Guardati attorno: a Milano mancano le palme, il cielo azzurro… le onde.»

Io me ne fottevo di questi discorsi. Noi sognavamo l’America e Vert sarebbe andato agli X-Games. Era solo questione di tempo.

*

«Ei Dave, lo vedi quello?»

Erano i primi di aprile. Come al solito, schiena contro la rete, eravamo semisdraiati sul playground, senza il timore di imbrattarci i pantaloni.

«Chi?»

«Quello in giacca e cravatta, con le mani dietro la schiena. Quello che fissa Vert.»

Per tutto il pomeriggio, un signore dall’aria austera e concentrata non gli aveva tolto gli occhi di dosso. Quando il suo sguardo aveva incrociato quello di Vert, questi si era bloccato a bordo rampa. Il signore gli aveva fatto cenno di avvicinarsi e se n’erano andati via assieme, un braccio del signore attorno alle sue spalle.

Da quel giorno le visite di Vert al Lambrooklyn diminuirono. Qualcuno mi disse che si stava allenando per i campionati nazionali e io sentii la trepidazione montarmi dentro. Il signore in giacca e cravatta era di certo uno scout!

Prima delle vacanze estive lo rividi di sfuggita, solo una volta. Come sempre, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla e mi limitai a godere delle sue mille acrobazie. Ma mi sembrava triste. Pensai che forse si era affezionato al Lambrooklyn come tutti noi e venirci sempre più di rado, in fondo, gli dispiaceva.

Arrivarono luglio e agosto. Io e Dave li passammo a fantasticare su Venice Beach, l’Ocean Front Walk, le palme e le belle ragazze. Pietra Ligure, dove trascorrevamo la nostra pausa estiva, offriva solo una passeggiata lungomare che di sera si animava di bancarelle, giovani famiglie con neonati, sale giochi luminose. Di giorno, il cielo era bianco. Il mare, torbido e schiumoso. A malapena ci entravamo perché non era raro imbattersi in isolotti di rifiuti galleggianti: pacchetti di sigarette, bottiglie di plastica. Era uno schifo. Questo era quello che mi ripetevo ogni giorno, sudando sotto l’ombrellone. Dave era d’accordo con me, glielo leggevo negli occhi. Solo che non ce lo dicevamo.

Per fortuna arrivò settembre e mi rifugiai alla bowl ogni pomeriggio. Ma di Vert nessuna traccia. A scuola girava voce si fosse frantumato una caviglia grindando lungo il bordo di una panchina in cemento a Forte dei Marmi. Fantasticai su come i giornali, in America, avrebbero ripreso la notizia. «Un’altra promessa dei “trucks” sciupata prima del tempo». Oppure: «Caduta di un astro nascente del vertical skateboarding». Immaginavo le varie interviste a Vert. Prima in ospedale, poi durante la riabilitazione. Alla fine, quasi per miracolo, sarebbe rimontato sulla tavola, tornando a fare prodigi.

Invece, i primi di ottobre, me lo ritrovai proprio al Lambrooklyn. Fu l’ultima volta che lo vidi, da ragazzo. La sua uscita di scena fu così trionfale che, ancora oggi, potremmo raccontarla tutti allo stesso modo.

Vert sta skateando nella bowl. Nonostante la pausa estiva, è ancora triste. Penso che deve aver buttato due mesi in un posto di merda come Pietra Ligure, sognando la California. Forse, è proprio per questo che oggi vola come non ha mai fatto prima. Poi un primo colpo di clacson. Il suono è lontano, quasi non me ne accorgo, perché il Lambrooklyn è all’ingresso del parco che dà su via Feltre, ma dista almeno cinquanta metri dalla strada. E per raggiungerlo bisogna percorrere un vialetto in cemento spaccato dalle radici degli alberi. Insomma, nessuno dà segni d’aver sentito quel suono. Poi i colpi di clacson si fanno più insistenti. Qualcuno dei presenti, fra cui Dave, esce dal recinto della bowl e guarda in direzione della strada.

«Dave, che succede?» gli grido io.

«C’è un signore in giacca e cravatta.»

«È lo scout?»

«Difficile dirlo da questa distanza, ma…»

«Ma cosa?»

«Chiunque sia, ha le spalle poggiate contro il fianco di una fottuta limousine!»

Finalmente. Erano venuti per portarlo in America. Anche Vert capisce che sono lì per lui, perché in quel momento esce dalla bowl, skate sottobraccio. Getta un’ultima occhiata alle rampe. Poi inizia a skateare in direzione dell’ingresso e, dopo qualche secondo di esitazione, tutti i presenti iniziano a corrergli dietro. La limousine è, in effetti, una limousine, con tanto di vetri oscurati. L’uomo in giacca e cravatta è quello di qualche mese prima. Vert si ferma davanti all’uomo, che gli apre la portiera e lo invita a entrare, mettendogli una mano sulla spalla. I due scompaiono dentro l’automobile che riparte a tutta velocità.

*

Sto gettando un pacco di pasta nel carrello quando lo vedo. Sono sicuro sia lui perché ha il cappellino Element calato in testa. Il grigio e il rosso sono un po’ sbiaditi, il simbolo s’è scucito ma quel cappellino è di sicuro il suo.

Ho trentadue anni, sono all’Esselunga di via Feltre, e mi ritrovo davanti Valerio «Vert» Sandrini. Il cuore inizia a battermi forte.

Da ragazzo non avevo avuto il coraggio di rivolgergli la parola, ma ora è diverso: sono un adulto.

«Vert?» Nessuna risposta. «Vert, sei tu?» L’uomo sta ispezionando gli scaffali davanti a sé. «Valerio!»

Si gira di scatto nella mia direzione. «Prego?»

Mentre mi risponde lo guardo in faccia e non so perché mi torna alla mente quel suo volto triste da preadolescente. Ma oggi il viso adulto di Vert è sereno. «Sono Duke. Non ci siamo mai parlati da ragazzi, ma…» Vert mi guarda perplesso. «Insomma, sono Diego Donati, venivo anch’io al Lambrooklyn.»

Vert sembra ripescare i ricordi, mi sorride. «Sono passati tanti anni.»

«Ma certo. Poi, insomma, a differenza tua noi altri non eravamo proprio all’altezza…»

Vert mi fissa, pare uno che ascolta questa storia per la prima volta, quasi mi innervosisce. «Cazzo Vert, tu eri il nostro fottuto idolo! Sono persino venuti a prenderti in limousine per portarti in America!» Mi escono queste parole che sono un misto incontrollato di entusiasmo e preoccupazione.

Vert scoppia a ridere. «La limousine era di mio padre.»

«Di tuo padre?»

«Sì, venne a prendermi per riportarmi definitivamente a Forte dei Marmi. Era preoccupato perché a Milano non studiavo niente e temeva potessero bocciarmi. Aveva ragione.»

Lo guardo e all’improvviso mi sembra di ricollegare tutto. Ma non ho la forza di pensarci compiutamente.

 

Simone Redaelli

Blam

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