La valigetta: un racconto di Giovanni Palilla

 La valigetta: un racconto di Giovanni Palilla

Sapevo di dover prendere parte alla veglia funebre. Mi trovo dunque davanti alla casa, un edificio bianco, a due piani, con tetto grigio spiovente con una sola finestra sul lato. Tutto attorno, un prato verde. Prendo la mia valigetta e mi dirigo all’ingresso, non c’è nulla che indichi che lì, in quella casa, si stia celebrando la morte. Dentro, vestiti di nero, trovo tanti commensali. Mi guardano, probabilmente perché non ho un cappello; tutti ne indossano uno: le donne un borsalino, anch’esso nero; gli uomini, invece, cappelli di diverso tipo e fattura. Mi fissano solo per pochi secondi, poi tornano a bere e a chiacchierare. Attraverso le varie stanze e trovo il tavolo; adesso, anch’io ho da bere, ma nessuno con cui chiacchierare. Con la valigetta in una mano e il bicchiere nell’altra, riprendo il mio funebre vagare alla ricerca del morto che non si trova da nessuna parte. In una delle stanze, non particolarmente piena, mi fermo e poggio la schiena contro il muro, valigetta a terra, e sorseggio dal bicchiere. Alzando gli occhi noto un palco, a cui prima non avevo fatto caso: è accessibile per mezzo di tre gradini, lunghi quanto il palco stesso e ricoperti da un tappeto blu. Sopra il palco, sorretto da una sorta di impalcatura d’ebano, si trova la bara, anch’essa blu. Valigetta alla mano, mi avvicino, perché è giunto il momento di rendere omaggio al morto. Salgo un gradino, poi il secondo e poi il terzo. A ogni gradino sento di dovermi fermare. La bara è aperta, ma solo la sua metà superiore. Mi avvicino con solennità, con solennità mi inclino: dentro giace un foglio con una scritta: La joie de vivre.

Un botto mi desta dalla lettura, è una porta che sbatte, che si è aperta con forza sul lato destro del palco. Ne esce un uomo, nudo, petto villoso, abbondante virilità penzolante, barba irsuta, sta urlando qualcosa in una lingua che è la mia, ma che non riesco a capire. Dalla porta esce anche una donna, vestita di giallo e bianco, capelli neri – corvini, direi – e raccolti in un nastro, anch’esso bianco, e urla contro l’uomo in una lingua che non è la mia, eppure mi sembra di conoscerla. I due litigano sul palco, non hanno alcun rispetto per il morto. Lei dà uno schiaffo a lui, lui la spinge e la fa cadere a terra. L’uomo fa un gesto, e tutti i commensali si radunano nella stanza in cui ci troviamo. L’uomo ripete il gesto, regna il silenzio. L’uomo scende dal palco e, nudo come la notte, percorre un fiume di spazio vuoto che si è aperto davanti a lui. Va verso l’uscita e in fila i commensali lo seguono, la donna per ultima. In realtà, esco io per ultimo, infatti quando li raggiungo hanno già cominciato. L’uomo non c’è più, probabilmente sarà stato il primo di tutti. Non mi ero accorto, entrando nella casa bianca, grigio tetto spiovente con finestra sul lato, attorniata da un prato, che dietro l’edificio scorresse un fiume, verso cui i commensali si dirigevano, entravano, immergendosi completamente. Sul fiume, dal largo letto, galleggia una congrega di borsalini, fluttuanti meduse di stoffa. La donna, ancora di giallo vestita, è lì che aspetta. Anche se gli astanti non hanno ancora completato il loro ciclo, decido che è il momento. Torno indietro, cerco la stanza con la bara, salgo sul palco e, davanti a essa, apro la valigetta.

 

Giovanni Palilla

Blam

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